Ritirarsi o continuare, resistere o desistere. Per i campioni è la decisione più dura da prendere: quando smettere? Ognuno vive la “fine sportiva” con tempi e modi propri, spesso fregandosene di quello che pensa la gente. Ed è quello che fece Michel Platini. “Le Roi” poteva proseguire per qualche altro anno, magari con un ricco contratto oltreoceano, e invece decide di smettere a soli 32 anni, in quel lontano 17 maggio 1985. Lo stadio è il Comunale di Torino, la partita Juventus-Brescia, (3-2 per i bianconeri, che condannano alla retrocessione i lombardi): in quel pomeriggio piovoso Michel gioca la sua ultima gara, chiudendo così una carriera sontuosa: 3 Palloni d'Oro consecutivi, 104 gol, 2 Scudetti, 1 Coppa Italia, 1 Coppa dei Campioni, 1 Coppa delle Coppe, 1 Supercoppa Europea e 1 Intercontinentale. 

Sono trascorsi 30 anni da quel giorno di pioggia e tristezza. Per celebrare il suo mito abbiamo scelto un episodio tra i più controversi della sua vita calcistica, considerato da molti il più bel “non gol” della storia di questo sport: una giocata (con relativa esultanza polemica) diventata ben presto iconica per quel ragazzo nato a Joeuf, cresciuto da campione e divenuto ben presto leggenda.

Tokyo, 8 dicembre 1985: finale della Coppa Intercontinentale. Si sfidano la Juventus di Giovanni Trapattoni, dominatrice in Coppa dei Campioni, e l’Argentinos Juniors, vincitore dell’ultima Copa Libertadores. La sfida è carica di attese e ha una duplice motivazione per i bianconeri: spezzare il dominio delle sudamericane (che vincono il trofeo da sette edizioni consecutive) e vincere l’unica Coppa che manca nella bacheca della Vecchia Signora. 

La Juventus è una corazzata, basta fare un paio di nomi: Stefano Tacconi in porta, Gaetano Scirea libero, Antonio Cabrini terzino offensivo, esterni Massimo Mauro e Michael Laudrup, centravanti Aldo Serena. Il tutto orchestrato da Michel Platini, regista a tutto campo della squadra. Ma gli argentini non son da meno e possono contare sulla classe di Claudio Borghi, centravanti letale e fantasioso, sulle doti da metronomo di Batista e Videla e sul duo Ereros-Castro, devastanti sulle fasce.

Nel primo tempo le squadre si studiano, ma nessuna trova il varco giusto, complice la forte pioggia caduta sullo stadio Olimpico che ha reso il campo pesante (“la palla rimbalzava quasi fosse un coniglio”, dirà il Trap in un’intervista). Nella ripresa la musica cambia radicalmente: dopo un gol annullato a Laudrup (fuorigioco), sono gli argentini a passare in vantaggio con un pallonetto velenoso di Ereros, che beffa Tacconi in uscita; dopo 8 minuti è proprio Platini ad acciuffare il pari su calcio di rigore, fischiato dopo un fallo di Olguin nell’area argentina. 

Minuto 68: calcio d’angolo per la Juventus, la palla viene respinta fuori dall’area e arriva a Bonini, colpo di testa verso Platini che stoppa di petto, supera con un pallonetto di destro un avversario e di sinistro ad incrociare trafigge Vidallè, incolpevole. Sei tocchi al volo senza che la palla tocchi terra. Poesia. Tutti esultano, Michel corre con i suoi compagni festante, ma si blocca bruscamente: l’arbitro ha fischiato, il gol non è valido. Platini quasi non ci crede: si mette le mani nei capelli, sprofonda per terra e si sdraia sul campo con testa appoggiata sul gomito e sguardo di sfida. Una protesta di classe, a metà tra ironia e irriverenza, un gesto divenuto simbolo per intere generazioni.

Chi dice fallo, chi fuorigioco. Cosa abbia realmente fischiato l’arbitro tedesco Roth quel’8 dicembre 1985 è ancora un mistero. Fortuna che la Juventus quella Coppa la vincerà lo stesso in una maratona conclusa soltanto alla lotteria dei rigori (la partita era finita 2-2, con le altre reti di Castro e Laudrup). E fu proprio Platini a calciare il rigore decisivo, di destro nell’angolino, con portiere dall’altra parte, per il 6 a 4 finale che vale l’Intercontinentale, l’unico trofeo che ancora mancava in bacheca.   

Peccato per quel gol annullato, ma forse neanche tanto. Senza quella bandierina alzata non avremmo mai ammirato quella posa iconica e beffarda, simbolo di un'eleganza unica. Un uomo che ha lasciato il calcio quando riteneva giusto farlo, quel 17 maggio di 30 anni fa, con questa frase:

"Nessuno verrà mai a dirmi che è ora di smettere".