Ritornando sulla rassegna interna al Memento, quella che la rubrica dedica alle scene dei film che in qualche modo hanno a che fare col gioco del calcio, questa volta ci soffermiamo su una scena unica, scelta per essere descritta in isolamento, come il film a cui appartiene, alieno dalla “normalità” cinematografica italiana degli ultimi anni. Un film che, probabilmente, meriterebbe e avrebbe meritato anche più attenzione.

Il paese delle spose infelici è una pellicola, uscita nel 2011, di Pippo Mezzapesa, tratta dal romanzo omonimo di Mario Desiati, pubblicato da Mondadori nel 2008. Le riprese, effettuate nella provincia di Taranto tra le località di Massafra e Palagiano, colgono in maniera amara e suggestiva le contraddizioni di luoghi inchiodati tra l'Ilva, una periferia ermetica e la bellezza di alcune perle, come, per esempio, il versante jonico e la cattedrale di Castellaneta. 

In un paesino della Puglia abita Francesco, detto “Veleno”, un ragazzino appartenente a una benestante famiglia borghese e fortemente attratto dalla vita dei suoi nuovi amici, ragazzi di famiglie indigenti provenienti dalla degradata periferia della Puglia divisa tra la campagna e l’industrializzazione siderurgica. Francesco, grazie all’aiuto e alle poco ortodosse iniziazioni di Zazà, suo migliore amico, entra a far parte, come portiere, di una squadra di calcio giovanile, la Cosmica, allenata da un mister il cui carattere possiede una vena romantica e allo stesso tempo severa, tipica di una spiritualità meridionale fusa a freddo tra il sogno e la passionalità, il realismo e il disincanto, che scorge in Zazà un talento che potrebbe portarlo a diventare un grande calciatore e per il quale riesce persino a organizzare un’amichevole con gli allievi del Bari, nella speranza della prospettiva di mandarlo a giocare nel settore giovanile della Juventus.

“Perché devi andare alla Juventus? Io a Torino ci sono stato. Fa un freddo!”

“E mi porto ‘nu cappotto”

E dal paese delle spose infelici è tratto il frammento del goal di Zazà. La sua azione solitaria è una tra le scene di futbol più poetiche della cinematografia degli ultimi anni. Un’azione che rassomiglia a quella del goal di Maradona contro l’Inghilterra ai mondiali del 1986. Che poi non so in quanti si siano mai chiesti perché Dieguito quel giorno decise di dribblare mezza squadra avversaria virando improvvisamente dalla direzione “scomoda”, scartando il portiere dal lato del piede destro, su una pendenza destra, pur tenendo il timone di quella rotta sghemba col piede sinistro e per una rotta fino agli ultimi metri diretta verso sinistra. Anche lì, in quell’apparente contraddizione c’è la tensione estrema del prodigio, quello assoluto, quello che viola ogni protocollo, persino quello dettato dalla propria naturalezza. Un superamento della stessa predisposizione naturale. 

E il goal di Zazà un po’ lo ricorda, con la palla puntata verso una mischia di avversari condotti tutti nello stesso grumo ingannatore, tra il fango e l’impossibilità di fermare chi è predestinato a governarla, quella scena sporca di terreno, ma illuminata dal miracoloso.

E tutti a seguirlo, Zazà. Il suo padre-allenatore, la sua guida socratica, lo sguardo dell’amico che dalla porta gli ha adagiato la palla dando il là a quella fuga gloriosa, seguendolo dai pali come a conoscere già l’epilogo, come ad esserne sicuro. A un certo punto pare che sia tutto il resto, uomini e cose, terra e nuvole, a muoversi intorno al pallone e alla sagoma di Zazà, immobile, fermo, con gli occhi fissi verso la porta e il suo destino. Quel goal viene benedetto dal bacio alla bella Annalisa, la ragazza misteriosa che è la madonna profana che guida i giovani protagonisti per tutta la vicenda.

Una corsa lunghissima, seguita dall’allenatore, dall’anziano collaboratore, lungo tutto il tragitto di un ragazzo della periferia pugliese che nemmeno riesce a immaginare cosa significhi poter arrivare in una realtà di un club come la Juventus. L’America. Quanto basta a un ragazzino cresciuto in un luogo che, come compare nelle prime scene del film, come orizzonte ha avuto in sorte lo sfondo ferroso, feroce e velenoso dell’Ilva di Taranto.