5 giugno 1968, Stadio San Paolo di Napoli: Italia e Unione Sovietica si giocano la semifinale degli Europei. È la prima competizione dopo il punto più basso toccato dalla nazionale nella sua storia: il mondiale inglese del ’66, chiuso con l’incredibile sconfitta contro la Corea del Nord grazie al gol di Pak Doo-Ik, uno che per anni è stato erroneamente presentato come dentista ma che in realtà faceva l’istruttore di ginnastica. L’Italia è una bella squadra, ci sono Mazzola, Riva, De Sisti, Anastasi, Rivera, Burgnich, Juliano e capitan Facchetti. Ha superato la fase di qualificazione senza problemi, chiudendo al primo posto nel girone con Romania, Svizzera e Cipro. Poi, nei quarti, vince il doppio confronto con la Bulgaria: sconfitta 3-2 a Sofia, vittoria 2-0 al ritorno.

Il paese “ospitante” viene scelto solo in quel momento, prima delle semifinali, per le ultime quattro partite: la UEFA decide per l’Italia, che sceglie gli stadi di Firenze, Roma e Napoli. E nel San Paolo ancora scoperto affronta una nazionale tosta, come l’Unione Sovietica - che per la prima volta dopo tanto, tanto tempo si presenta ad una competizione del genere senza avere Lev Yashin, il ragno nero ormai trentottenne, a difenderne i pali. La partita è tirata, si va ai supplementari e si chiude sullo 0-0. E allora, rigori? No, perché verranno introdotti solo negli anni ’70. E chi crede che dagli undici metri si consumi un tragico rito, pensi solo che per risolvere la contesa prima dell’introduzione della lotteria ci si affidava al più beffardo e casuale dei sorteggi: il lancio della monetina.

L’arbitro tedesco Tschenscher chiama negli spogliatoi i due capitani: Shesternev per i russi, Facchetti per gli italiani. Tira fuori una monetina da dieci franchi francesi: da una parte stemmi, dall’altra figure. Jakuscin, l’allenatore dell’URSS, dice al suo giocatore di scegliere le figure. Facchetti si oppone: scelgo io. E scelgo le figure. La testa. Da questo momento in poi, quello che successe negli spogliatoi di Fuorigrotta è affidato alla leggenda: c’è chi parla di una moneta truccata, con due “figure”, due teste, per far vincere i padroni di casa; c’è chi dice che non ha mai avuto dubbi, come Mazzola, perché quando si trattava di scommesse Facchetti aveva una fortuna sfacciata e vinceva sempre; c’è chi giura che il lancio fu ripetuto, perché al primo tentativo, dopo i giri nel silenzio, la moneta si prese gioco di tutti e cadde “in piedi”, nello spazio fra due mattonelle; c’è chi crede che a far fare l’ultimo giro, quello buono, sia stato San Gennaro. Fatto sta che, dopo il sorteggio, Facchetti quasi spacca la porta e corre nei corridoi sotto lo stadio, sale le scale con i muri tappezzati di madonne e santini, e per primo tira fuori la testa davanti a quella che oggi è la Curva A: sugli spalti in ottantamila aspettano il risultato, in campo Valcareggi e tutti gli altri azzurri: eccolo, è Facchetti, abbiamo vinto!

Nella finale dell’Olimpico, a sorpresa, l’Italia trova la Jugoslavia: battuta l’Inghilterra di Bobby Charlton, la squadra di Mitic si sente già mezza campione: “abbiamo eliminato i più forti, il più è fatto”. Ma la storia finisce diversamente: l’8 giugno finisce 1-1, segna prima Dzajic e Domenghini pareggia all’’80 su punizione. Niente supplementari e niente monetine: dopo due giorni di tensione, la partita viene ripetuta. Valcareggi cambia cinque uomini, vanno in gol Riva e Anastasi (stop e tiro al volo dal limite dell’area, bellissimo) e l’Italia diventa campione d’Europa.