Ieri sera, subito dopo gli errori dal dischetto di Griezmann e Juanfran ho avuto un illuminazione. Di quelle folgoranti, che ti colpiscono a caldo, durante una finale di Champions, ed a margine d'una stagione calcistica per club quantomeno inaspettata. Durante la quale, oggettivamente, abbiamo visto di tutto. Ed il contrario di tutto.

In Serie abbiamo visto una squadra senza stelle di primissima grandezza, e abbandonata da almeno tre calciatori di indiscusso valore internazionale, cadere sotto i colpi di chiunque e poi di rinascere, dopo un terzo di stagione, rinascendo dalle sue ceneri come araba fenice e vincere a suon di record uno scudetto che segna la storia. In Premier, invece, abbiamo visto rinascere la speranza. La speranza di vincere nonostante la storia, il fatturato ed i valori in campo, i pronostici e le avversità siano assolutamente inconciliabili coi miracoli. In Champions, infine, abbiamo ammirato la caparbietà e la risolutezza d'un gruppo ancora una volta tanto epico quanto sfortunato, capace di inchinarsi per la seconda volta in tre anni ai rivali più edulcorati e acerrimi. 'Indios' contro 'vikingos', 'colchoneros' contro 'merengues', in una sfida caliente che va avanti sin dal 1903, ai tempi della Federación Regional Centro, e che ieri s'è arricchita dell'ennesima battaglia, in campo neutro. Alla fine ha avuto ragione il Real di Zidane, unico nella storia a vincere la Coppa dalle grandi orecchie sia da calciatore, che da allenatore che da vice: sempre al Real, e due volte su tre contro l'Atletico. Che, dalla sua, avrebbe meritato non solo per ripristinare quella sorta di equilibrio cosmico calcistico che il fato spesso concede sotto forma di "rinvincite", ma anche perché, nonostante possa non piacere, il calcio di Simeone va apprezzato. Ed, in qualche modo, anche rivalutato.

Perché in questo gioco non ci sono, e non possono esserci solo maestri e frombolieri, stelle di grandezza assoluta e primedonne capaci di regalare giocate fuori dal comune. Parafrasando un celebre aforisma di Bill Shankly, e paragonando il calcio ad un pianoforte, per tre squadre che sappiano suonare quel dannato strumento è giusto anche che ce ne siano otto in grado di caricarselo in spalla. Altrimenti non esisterebbero arcigni difensori, né ruvidi medianacci, e né tantomeno squadre capaci di sovvertire i pronostici (figli, inevitabilmente, di analisi legate agli spessori tecnici) attraverso l'impiego di altri valori: atletici, umani, morali. In poche parole, esattamente quelli che serviranno all'Italia di Antonio Conte in Francia.

Quando l'autore scrive, non è ancora nota la liste definitiva dei 23 prescelti dal CT. Una sottigliezza, se si considera che ai fini di queste riflessioni i nomi e le caratteristiche dei singoli sono solo parzialmente funzionali. Più che altro perché, in ogni caso, e come universalmente riconosciuto, quella che sarà la rappresentativa azzurra per la prima volta da qualche decennio a questa parte sarà una squadra senza alcun campione o presunto tale. Fatta solo di figli della generazione tecnicamente più misera dal dopoguerra a oggi, ma trascinata da altri mezzi: quelli, per inciso, scelti da Antonio Conte. Che, negli anni, ha anzitutto badato a scegliere uomini utili a mettere in campo un'idea di calcio tanto semplice quanto - me lo si consenta - obsoleta. Il 3-5-2 è modulo assai poco moderno e internazionale, ma assolutamente adatto ad esaltare la solidità difensiva dell'unico reparto in grado di offrire assolute garanzie. Per il resto, la manovra di costruzione e la finalizzazione sono tutte demandate alla determinazione ed all'abnegazione degli esterni - uno più offensivo, generalmente un'ala, e l'altro capace di riequilibrare verso il 4-4-2, tendenzialmente un terzino -, alle capacità di inserimento degli intermedi - non a caso, in questo ruolo sono stati ripetutamente provati Florenzi e Giaccherini - ed alla capacità delle punte di dialogare tra loro e favorire i tagli, le ripartenze veloci e le incursioni dalle retrovie. Tutto molto lineare, quadrato, ed affrontato con serafica capacità d'analisi. Senza isterismi tattici, né variazioni sul tema, ma alla costante ricerca dell'armonia tattica di base e della solidità. Qualcosa, per intenderci, di molto simile all'approccio ranieriano al problema.

Per il resto, ciò che servirà ai nostri, per evitare brutte figure transalpine, sarà l'impiego costante e reiterato d'una cattiveria agonistica d'altri tempi. Un modo di vivere le partite al quale in Serie A siamo ormai disabituati, ma che vede in uomini dal cuore pulsante a ritmo di tango come il Cholo la sua incarnazione. In Sudamerica la chiamano Garra Charrúa, ma noi mitteleuropei l'abbiamo sempre conosciuta come 'Garra'. E' una delle caratteristiche peculiari degli uruguaiani, che semplicisticamente alcuni inquadrano nell'ostinatezza e nella determinazione. Anche e soprattutto quando le imprese, in questo caso sportive, appaiono impossibili. Non a caso 'garra' sarebbe traducibile come 'artiglio', mentre i 'charrúa' erano una tribù indigena delle pampas che lottarono fieramente, e per tempo immemore, contro il colonialismo. Un modo mirabile di non accettare qualsiasi tipo di avversità, soprattutto se iniqua, e di affrontare con estremo coraggio gli attimi di definizione. Un modus vivendi che dipinge a perfezione il cholismo e che, seppur in misura più locale e meno affascinante, Antonio Conte sta provando ad insegnare anche ai suoi ragazzi. Molti dei quali, in effetti, vivono contesti sportivi tutt'altro che prodighi di imprese, oltre che animosi. Ma che, vista la caratura tecnica della rosa, dovrà essere necessariamente l'unico modo possibile di interpretare la spedizione, dal momento in cui si metterà piede in terra di Francia sino a quello in cui il primo piede azzurro ricalcherà il suolo italico.

L'ultima cosa che ci servirà, più banalmente, è la fortuna. La chiamiamo 'culo' perché, forse, rende maggiormente l'idea. Ma non interpretatelo nella sua accezione spregiativa, che generalmente assume quando essa viene accostata al calcio ed allo sport in generale. Non esiste buona e grande squadra che non ne abbia mai avuto, né tantomeno vittoria che non ne contempli almeno una piccola dose. Secondo Luigi Curini, che insegna scienze politiche alla Statale ed ha applicato un metodo statistico impiegato nello studio degli eventi sportivi statunitensi, in Italia la buona (o mala) sorte pesa, negli incontri, in media per il 42%. Forse un po' troppo, per i fini conoscitori del gioco, ma comunque parte essenziale di esso. Nel derby madrileno, per dirne una, il buon Zizou, erede di Benitez ed alla sua prima esperienza da allenatore professionista, di certo non ne ha avuta poca. Gli scellerati rigori di Griezmann e Juanfran di cui parlavo all'inizio di questo delirante sproloquio, misti al gol in fuorigioco di Sergio Ramos (e ad un percorso non proprio imponderabile), hanno obiettivamente fatto la loro parte. E chissà che, dopo le molte edizioni dei tornei continentali ed intercontinentali in cui l'Italia ha avuto il suo bel rovinoso rapporto con la sorte, non sia arrivato il momento di pareggiare i conti. E non mi si venga a dire che, sempre a proposito di Francia e Zidane, i rigori del 2006 ci abbiano già risarcito. Il credito è sempre aperto, e considerato che non ve n'è mai stata necessità più urgente di adesso, presumo sia arrivato il tempo di riscuotere.

Sobrietà, garra e culo, in definitiva, le uniche armi delle quali possiamo, potenzialmente, disporre. Basteranno alla Nazionale per vincere gli Europei? Probabilmente no. Ad oggi, però, è giusto aggrapparsi ad esse. Tanto, alla fine, contano solo i risultati. E, checché ne dicano i soloni di quello che alla fine è solo e puramente un gioco, di come arrivano solo in pochi si ricordano. Generalmente quelli che non hanno né sobrietà, né garra, né culo.