Dopo avergli calciato addosso con tutta la sua forza il sinistro che avrebbe potuto portare il Benfica alla vittoria, Eusebio accarezzò il portiere che trattenne tra le braccia il tiro che cambiò la storia di quella finale. Con quel gesto Eusebio chiese scusa alla sua squadra e a se stesso. Lo fece assicurandosi che il suo avversario stesse bene, dopo avergli indirizzato quel tiro violento e potentissimo. L’espressione intenerita, il volto dentro la forma del rimpianto e il dovere di ricominciare a giocare. E fu la fusione del dolore sopra la faccia del più grande attaccante del mondo.

Se il grande Eusebio avesse centrato la porta, se non avesse calciato nell’unico punto dove non avrebbe dovuto, se si fosse accorto di avere lo specchio spalancato e l’occasione decisiva e irripetibile, la partita sarebbe finita lì e non ci sarebbero stati i supplementari durante i quali il Manchester United di Best e di Charlton avrebbero segnato tre goal in pochi minuti. 4-1 il risultato finale. Tutta la maledizione di Béla Guttmann congedatosi dalle aquile portoghesi ammonendole che senza di lui non avrebbero più vinto una finale. Un anatema che ancora dura, dopo più di mezzo secolo di calcio che ha visto il Benfica perdere altre finali europee, di Champions, di Europa League, altre partite ultime e segnate da una maledizione entrata nei grandi tabù, quasi fino a diventare una regola non scritta. La norma della persecuzione.

Il 29 maggio 1968, al Wembley Stadium di Londra, tra Manchester Utd e Benfica andò in scena la finale della tredicesima edizione dell’allora Coppa dei Campioni. Secondo alcuni quella fu la finale delle leggende. Da una parte Eusebio l’africano venuto al mondo per firmare la storia del calcio portoghese dentro la storia portoghese, dall’altra il grande capitano Charlton, bandiera del Manchester United e del calcio britannico, e George Best, il numero sette con l’anima del dieci, il poeta maledetto del calcio. Oggi il suo nome viene ricordato insieme a quelli di Maradona, Pelé, Cruijff.

La finale di Wembley fu arbitrata da Concetto Lo Bello, il più celebre arbitro italiano di tutti i tempi. Futuro deputato e nome simbolo di una scuola arbitrale che avrebbe fornito un modello di rara personalità e autorevolezza. L’arbitro che avrebbe chiesto scusa per un errore dopo aver rivisto l’azione alla moviola, l’arbitro che lo avrebbe fatto per la prima volta nella storia degli arbitraggi, dopo un Milan-Juventus del 20 febbraio 1972, ammettendo di aver sbagliato a non concedere un rigore ai rossoneri. 

Il Benfica delle meraviglie era arrivato in quella finale eliminando la Juventus vincendo entrambe le gare di semifinale e senza subire goal. Il Manchester aveva conquistato il lasciapassare per l’ultimo atto rimontando il Real Madrid nell’ultimo quarto d’ora della semifinale di ritorno, al Santiago Bernabéu. Da 3-1 per i blancos a 3-3. Cose da Manchester United, imprese da Inghilterra degli anni ’60. L’undici inglese che si era presentato al cospetto della coppa dalle grandi orecchie nel mitico stadio di Wembley era stato rifondato dopo la tragedia aerea di Monaco di Baviera, l’incidente che dieci anni prima aveva decimato il più grande Manchester di tutti i tempi, i Busby Babes dei quali poco era rimasto, se non il ricordo che ancora a lungo avrebbe ammonito i suoi eredi di continuare a essere gloriosi come il blasone dei reds aveva sempre chiesto di fare.

In quella finale del 1968 era stata dura, nonostante il vantaggio iniziale di Charlton, poi pareggiato da goal di Graça. Quando Eusebio si trovò da solo davanti al portiere inglese, tutta la Manchester presente allo stadio fu scossa dalla paura di una sconfitta che sarebbe stata giustificabile, vista la grandezza dell’avversario, ma dura da digerire, considerando quanto fosse in gioco in quella partita. La consacrazione di Best, che poi avrebbe vinto il Pallone d’oro, la fatica di essere arrivati lì, gli anni della ricostruzione dopo la quasi totale scomparsa di quella grande squadra, i cattivi ricordi, i fantasmi del passato e la paura di non riuscire più a ritrovarsi. 

Quando Eusebio si avvicinò a Stepney quasi per abbracciarlo, la concentrazione del portiere inglese nel riprendere i gioco come se niente fosse successo, come se in quel frangente la storia del suo Manchester in quella Coppa dei Campioni non l’avesse scampata bella, trasferì quella paura nei portoghesi e consegnò la chiave delle possibilità nelle mani degli inglesi. Appena iniziati i tempi supplementari, Best ne approfittò subito. Gli fecero seguito Kidd e poi ancora Charlton e nel giro di pochi minuti la Coppa dei Campioni andò al Manchester United.