In questo Paese si parla tanto.

In questo Paese si parla di calcio.

In questo Paese si parla tanto, di calcio.

E lo fanno praticamente tutti. Soprattutto quando è la Nazionale - mediamente una volta all'anno - a fare discutere. Tutti parlano di calcio, tutti fanno i CT, le loro convocazioni, gli appunti tattici, le analisi. Quasi sempre a posteriori. Non è giusto né sbagliato, è semplicemente così.

Tutto, però, diventa opinabile, ed in alcuni casi addirittura grottesco quando si passa da una parte all'altra della barricata, o da sotto a sopra il carro, senza soluzione di continuità. La morale, in ogni caso, la lasciamo ad altri. Il nostro mestiere, per quanto possibile, e bontà vostra, è fare cronaca e opinione. E la nostra - nella fattispecie, la mia - è diversa da quella di molti altri. Partiamo da un assunto.

Andare in Spagna a fare risultato era un'impresa. Fattibile, ma comunque un'impresa. Impresa che da quando il calcio è calcio, e la Nazionale è Nazionale, al di fuori dei due tornei ufficiali è stata storicamente più unica che rara. Il nostro movimento, ed i nostri rappresentanti (checché ne dicano) in campo, hanno sempre snobbato i lunghi e tediosi percorsi che portano ad Europei e Mondiali: facciamocene una ragione. Il massimo risultato col minimo sforzo è sempre stato l'obiettivo unico, oltre che l'indirizzo federale. Il massimo col minimo sforzo, con l'attuale format di qualifica, è esattamente quello che, con buona probabilità, concretizzeremo: secondo posto, spareggio, e sofferto passaggio del turno. L'alternativa sarebbe stata superare, in un cammino che può essere equivalente ad un mini-campionato, la Spagna in classifica, e arrivare primi. Alla lunga, però - ed i campionati quasi sempre lo certificano - i primi sono i più forti. E oggi tra Spagna e Italia penso non ci sia dubbio alcuno che la più forte sia la Spagna. Loro arriveranno primi, quindi, e noi secondi. Dovevamo vincere a Madrid, per ribaltare clamorosamente il pronostico e con esso la classifica: pareggiare avrebbe cambiato poco. Sotto di un gol, subito per un posizionamento discutibile di Buffon, i ragazzi hanno capito che dimenarsi sarebbe stato inutile e faticoso. Abbiamo mollato la presa e contestualmente preso l'ennesima imbarcata: già, perché gli iberici, notoriamente, se ne fregano del se, come e perché il proprio avversario sia inerme. Se possono lo demoliscono (anche psicologicamente, oltre che tecnicamente), e fanno bene. E' nel loro DNA, a differenza nostra, che sul 2-0 tiriamo sempre i remi in barca e iniziamo ad addormentare la partita. E' esattamente ciò che è successo sabato sera. A questo punto, però, leccarsi le ferite non è più utile di discutere della scelta di Ventura. E' il nostro CT, è fin quando lo sarà dovremo sostenerlo, credere in lui, nella sua idea di calcio, e nella rivoluzione non solo tattica, ma di mentalità, che il suo ciclo sta cercando di portare a compimento. Gian Piero è un lussurioso del pallone. Lo ama, se ne nutre, ne gode. Come Conte, d'altra parte, che però con un gruppo che aveva neanche metà del talento di quello attuale (anche per le sue scelte, ovviamente) bramava il risultato, prima dello spettacolo. E a noi, nonostante un'eliminazione fragorosa, è piaciuto anche quello, seppur più sparagnino e mentale, come calcio. L'esatto opposto di quello spregiudicato e avventuriero di Ventura, che ci piace addirittura di più per il suo andare contro. Contro la storia, la tradizione, contro gli archetipi. Contro i modelli, a favore del talento. Anche troppo, se si considera che il CT, pur di assecondare un po' tutti i valori che a disposizione, si ostina a investire - anche in condizioni avverse, vedi Madrid - su Insigne esterno di centrocampo, Immobile con Belotti, Verratti mediano e il solo De Rossi a farsi quello che, volgarmente, dìcesi "culo". Troppo eccitante, anche per Ventura, che però di certo non è un folle. Ci fosse stato Chiellini, contro le furie rosse, probabilmente sarebbe saggiamente tornato alla difesa a tre, che massimizza il rendimento non solo del livornese ma anche di Bonucci, lasciando davanti Insigne al suo ruolo naturale (ovvero attaccante di sinistra del tridente, senza necessità di tornare a dar man forte al centrocampo), panchinando Immobile a favore di Belotti, ed alzando Spinazzola (anch'egli più a suo agio a centrocampo) e Darmian. Mossa intelligente soprattutto se si considera che in Russia (se ci saremo. E ci saremo) ci sarà anche Florenzi, al meglio, nel gruppo azzurro, che si esprime al meglio sicuramente in quella posizione. Può essere quindi il 3-4-3 (con gli esterni che si abbassano, a formare la cerniera a 5) il modulo del futuro immediato, soprattutto nelle occasioni in cui servirà fare attenzione, lasciando al 4-2-4 lo spazio che merita in tutte le occasioni in cui partiremo avvantaggiati tecnicamente, e serviranno due punte vere, simultaneamente, per cercare di spaccare a metà le difese più chiuse. Ventura queste cose le sa. Non è certo lì per la Divina Provvidenza o in quanto fortunato o raccomandato. E' un uomo, oltre che un professionista, vero, che sa di avere la chance più grande della sua vita, non solo professionale, ancora a portata di mano. E saprà come coglierla. Suderemo, soffriremo, sputeremo sangue, se sarà necessario, come sempre abbiamo fatto: ma, alla fine, dopo gli spareggi di novembre, inizieremo a prepararci alla campagna di Russia. Un'ultima occasione anche per Buffon di salutare quella porta che è stata sua per 20 anni con il sorriso e gli allori a cui è storicamente abituato. Sin dall'esordio, nella neve che colorava gli animi e nel gelo che fendeva le carni proprio di Russia, nel bel mezzo della bagarre degli spareggi che per la prima volta coinvolse il nostro popolo e anche quel ragazzo, che da lì a due decadi l'avrebbe rappresentato fieramente. Le ultime gare del girone e il doppio spareggio saranno anche le sue partite. Oltre che quelle di Insigne, di Verratti, e di Gian Piero. Uno che ne sa, certamente, più di tutti noi.

Se non vi fidate di me, fidatevi almeno di lui. Della libidine che racconta e che si legge candidamente nei suoi occhi. Anche quando le cose vanno male. Soprattutto quando le cose vanno male. Soprattutto quando c'è la consapevolezza di farla implodere, questa maledetta libidine, per raggiungere un obiettivo più importante, rispetto alla necessità viscerale di soddisfarla.