L’Italia che nel 1974 affrontò l’Olanda di Cruijff in una partita per le qualificazioni agli europei usciva da un mondiale deludente e da una crisi d’identità. Una lenta fase di ricostruzione l’avrebbe restituita rigenerata e sorprendente al campionato del 1978, battuta in semifinale proprio dagli olandesi. Dal 1970 al 1973 l’Europa dei club aveva parlato soltanto olandese. Quattro Coppe dei Campioni conquistate dal Feyenoord (1970) e dall’Ajax delle meraviglie (1971, 1972, 1973). Quattro segni chiari e incontestabili di un calcio che avrebbe proiettato nella nazionale olandese tutto il suo splendore, efficace e imbattibile nelle competizioni per club, maledetto e incompiuto in quelle per nazioni, con due finali perse ai mondiali, nel 1974 in Germania e nel 1978 in Argentina, per mano di una nazionale, quella biancoceleste, eletta dentro le rassicurazioni della giunta di Videla.

Il 20 novembre del 1974, allo Stadion de Kuip di Rotterdarm, tempio del grande Feyenoord, l’Italia allenata da Fulvio Bernardini deve fare i conti con l’Olanda di Knobel. Suurbier, Krol, Neeskens, Haan, Van Hanegem e Rensenbrink sono alcuni dei fuoriclasse guidati da quel fenomeno destinato a diventare leggenda: Cruijff. Prima gara del gruppo 5, primo momento di tensione sportiva per un undici, quello italiano, non ancora rodato per affrontare avversari così forti. L’Arancia meccanica di Knobel pratica un calcio che gli olandesi potrebbero giocare anche bendati, accomodati in quelle manovre a memoria che stanno rivoluzionando le tattiche e le interpretazioni di un gioco che sta generando altri giochi.

L’Italia ha Zoff, Boninsegna, Causio, Juliano, Antognoni e Anastasi, ma non ha la solidità per poter ripetere le magie del 1970, di quel mondiale in cui la semifinale con la Germania è la partita, ancora oggi “la partita”, ma in cui il Brasile, pure a distanza di quasi cinquant’anni, continua a dominare una finale durata solo la metà del tempo per una nazionale, allora, troppo stanca, troppo inferiore, troppo umana per il Brasile più grande di sempre.

La sera del 20 novembre del 1974, arbitraggio agli ordini del sovietico Kasakov, la nazionale tricolore prova a tirare fuori l’orgoglio che ha contraddistinto i momenti più difficili del suo calcio tutta tradizione e imprevedibilità emotiva. Quando, dopo 5 minuti di gioco, Boninsegna beffa il portiere olandese con un colpo di testa che si infila tra il primo palo e un tentativo non del tutto ortodosso da parte dell’estremo di casa, la gara sembra prendere una piega imprevista, con l’Italia in vantaggio e la paura di una sconfitta casalinga per la squadra favorita dal pronostico. Bernardini, allenatore polemico con la stampa, a tal punto da creare due fronti, uno a lui favorevole, l’altro totalmente contrario al suo operato, assapora la possibilità di un successo che gli darebbe lustro “politico” oltre che calcistico. La conferenza stampa della vigilia, infatti, era stata caratterizzata da dichiarazioni schive e spigolose da parte dell’allenatore italiano, che un po’ si era nascosto e un po’ si era lasciato andare a risposte guascone e provocatorie.

La gioia italiana dura meno di venti minuti. Rensenbrink pareggia i conti al minuto 24, con le squadre negli spogliatoi sul risultato di parità. Un risultato che potrebbe stare molto bene agli azzurri, ma che non ha fatto i conti con l’uomo più atteso, che, al minuto 64, ricorda alla partita e alle chiacchiere della vigilia che il calcio dei grandi realizza i fatti nei momenti decisivi. Prima il 2-1 e poi il 3-1, segnato sempre dall’asso olandese all’ottantesimo, fissano il punteggio su una distanza più prevedibile, che descrive un andamento quasi topico rispetto a quella nazionale italiana, entusiasta, grintosa, ma ancora immatura.

La consapevolezza di nuovi mezzi arriverà più tardi, con la rivincita nel girone (sia pur a Olanda ormai qualificata) e con il mondiale argentino, ben disputato fino alle semifinali. Un quinquennio di maturazione che preparerà la nazionale al trionfo del 1982. Una didattica polemica e sofferente, paziente e silenziosa, utile a rilanciare un’Italia rimasta troppo a lungo a digiuno di successi mondiali. La capacità di aspettare nel calcio passa pure per le sconfitte per mano di chi ha qualcosa da insegnare. Quell’Olanda insegnò a tutto il mondo.