C'è un mondo intero, là fuori, che si muove. Anzi, corre. Strepita, mugola, urla a perdifiato. Ci si scambiano telefonate, fax, mail certificate, tweet, comunicati stampa, indiscrezioni. E, finalmente, quando l'affare è concluso, milioni. Non di parole, ma di euro. E non pochi. Nel caso di Neymar, 222, e solo per il cartellino. Il resto, che porta l'operazione complessiva ben oltre il mezzo miliardo, andrà al giocatore, ai suoi agenti, alla famiglia, al suo entourage, annessi e connessi. Ci importa poco. C'è chi va per la sua strada. Chi, prima di cambiare, vuole, una volta per tutte, definitivamente, guardarsi allo specchio e realizzare chi è diventato. Quel 'chi', nella fattispecie, è Maurizio Sarri.

L'uomo che ama e che fa amare il gioco del pallone, ai suoi ragazzi, ai suoi tifosi e - capacità più unica che rara - ai suoi avversari. E non mi riferisco solo al suo gioco, alla sua squadra, al suo modo di guardiolizzare i suoi schemi: ma al pallone in senso lato. Perché è solo guardando giocare con vivace attenzione il Napoli dello scorso anno, che anche un disamorato del calcio potrà ridestare i suoi sentimenti sopiti nell'indifferenza.

Il fatidico, possente, momento del 'ma', in ogni caso, è arrivato. Perché Maurizio Sarri è anche, suo malgrado, soprattutto il vero, unico protagonista del triennio calcistico azzurro più visceralmente partenopeo nella sua essenza più profonda: maledettamente affascinante e fascinosamente maledetto. Perché non vincente, paradossalmente, anche a differenza di quel poco che i suoi predecessori - Benitez e Mazzarri - erano riusciti a fare. Coppa Italia, SuperCoppa, poca roba, vero: ma tanto, il loro significato, per molti di quei tifosi che anteporranno sempre lo sfottò una tantum agli arci-rivali juventini (contro cui in verità il Napoli qualche soddisfazione se l'è presa pure, nell'era De Laurentiis) al piacere più diluito ed intellettuale del bel gioco. Che procura goduria visiva, eccitazione, appaga l'animo ma non il corpo: per quello, serve solo l'orgasmo. E da che mondo è mondo, nel calcio, gli orgasmi li concedono solo le vittorie.

E' un bello e non vincente, Maurizio Sarri, ma solo all'apparenza. Tra 30 anni, dovesse concludersi a breve (e se non dovesse vincere anche quest'anno, si concluderà) il suo ciclo al Napoli, lo ricorderanno come un Sacchi senza trofei: esattamente come lui non vorrebbe essere catalogato. Per questo deve iniziare a smentire tutti. E non andando a riportare un orgasmino di piazza, fugace, qualsiasi, replicando le Coppette di chi fu. Napoli, per ciò che ha mostrato sul campo (meno, in verità, a livello societario) nel corso dell'ultimo decennio merita e deve ambire a qualcosa di più. Si chiama Scudetto, e da quelle parti ancora si fatica a pronunciarne il nome. Come se si andasse a infrangere un tabù, o a scherzare la scaramanzia che poi - si sa - ti si rivolta contro. Perché la squadra che gioca il miglior calcio del Paese, semplicemente, deve ambire a vincere il campionato. E' obbligata a farlo, per non restare una (non) banale incompiuta.

Ma non solo. Perché il Napoli di Sarri lo scorso anno ha dimostrato di aver maturato l'attacco più prolifico del torneo (pur senza Higuain né, di fatto, Milik), e di registrare i meccanismi reconditi anche di quello che può tranquillamente dirsi tra i migliori tre reparti di centrocampo. Nessuno, d'altra parte, ha in rosa due centrocampisti che potenzialmente hanno in canna la doppia cifra, come Hamsik e Zielinski: è tutto qui il bagaglio di competenza di Sarri, che se solo riuscisse anche a maturare il graduale inserimento di Maksimovic riuscirebbe a dare una sistemata anche alla difesa. Che, ad oggi, rappresenta l'unico vero punto debole, oltre che interrogativo, della squadra. Non per varietà (ad oggi, 5 centrali e 5 terzini), né per rendimento (terza miglior difesa, dietro Roma e Juve): ma per efficacia. Il Napoli deve riuscire a trasformarsi in una macchina in grado di non subire gol quando non deve subirne: un passaggio fondamentale, per la cui realizzazione Koulibaly, Albiol e soprattutto Reina non possono bastare. Da questo punto di vista, a dirla tutta, un tentativo estivo, anche invano, per Donnarumma e Bonucci andava fatto. Sembreranno parole al vento, o strategie di mercato surreali, ma sono esattamente e solamente quelli i nomi che oggi possono realmente servire a questa squadra. Perché solo una stella di primissimo fulgore può adeguatamente anteporsi alla cometa, rappresentata da una struttura scheletricamente geometrica, fatta di uomini perfettamente consapevoli dei loro ruoli, dei loro doveri tattici, delle loro libertà di azione. Una macchina semplicemente oliata a dovere, dopo due ricchi anni di rodaggio, che ora non può tirarsi indietro all'ultima curva. Anche perché - questo non lo dice il sottoscritto, ma la statistica - la Juventus (pur essendosi rinforzata) non potrà vincere per sempre; la Roma ha perso pezzi e deve ripartire da un nuovo tecnico e le altre, Milan in testa, sono ancora indietro. L'occasione fa l'uomo ladro e l'allenatore vincente: Roberto Mancini - uno che a Sarri non sta proprio simpaticissimo - una decina d'anni fa intraprese il suo percorso vincente approfittando appunto d'un momento così-così del nostro campionato. Che ovviamente non corrisponde a questo, per carità: ma l'esempio serviva a rendere indotti sulla contrapposizione tra periodi storici, e opportunità di carriera. Il gioco di Mancini non sarà neanche lontanamente paragonabile a quello di Sarri, ma quel suo filotto nerazzurro gli concede, ancora oggi, di godere di una fama nazionale e internazionale probabilmente anche superiori rispetto alle sue reali capacità. E' questo il treno su cui merita di salire Maurizio Sarri, a cui personalmente, dopo il Napoli auguro un futuro altrettanto azzurro, in Nazionale, magari subito dopo (o prima) di Ancelotti. Un treno su cui salirà se il patto stipulato dai calciatori del Napoli, quest'anno, sarà solido sino sino a fine stagione. E tutti daranno il massimo. 

Poi, forse, Reina andrà via, Koulibaly deciderà di migrare in Premier League, Hysaj lo seguirà, ed alcune big del calcio europeo si sfideranno nella corsa a Insigne. Che ha solo un anno in più rispetto al Neymar di cui sopra, lo scorso anno ha segnato esattamente quanto lui (20 gol), ed è stato anche sottilmente vagliato da Braida come possibile erede del brasiliano. Di cui non avrà il carisma, l'appeal mediatico, i followers, gli sponsor, e forse neanche buona parte delle giocate, ma la funzionalità quella sì. Difficilmente nell'economia di gioco del PSG Neymar peserà più di quanto lo sarà, anche quest'anno, lui nel Napoli. Che, a differenza di chi spende, e corre, e urla, e fa parlare, come chi prende Neymar, è rimasto fermo. In attesa di - come dicono proprio a Napoli - "pesarsi la palla" o, più trivialmente, addirittura "pesarsi la uallera" (dall'arabo 'wadara').

Ovvero, alla lettera, "ponderare in termini numerici, attraverso supporti più o meno tecnologici, il fardello della propria sacca scrotale", o, in senso lato ed applicato al merito, "guardarsi allo specchio ed autovalutarsi, mettendosi anche fortemente in gioco". Esattamente ciò che deve fare Sarri, oggi, alle porte del giorno più lungo, che durerà 10 mesi e porterà la sua squadra a terminare il ciclo triennale che lui stesso aveva indicato come periodo ideale per il compimento del suo progetto. Dopo due stagioni di (a posteriori) utile frenesia, quest'anno il Napoli ha scelto di attendere. Di attendersi. Che, come spesso accade, significa anche stare in perfetto equilibrio tra l'immobilità e, soprattutto, la speranza. Di cosa, Sarri lo sa già. Ma, da buon tosco-napoletano, non lo ammetterà se non quando e se mai sarà prossimo all'ultima giornata, e, contestualmente, almeno in vantaggio di un paio di punti sulla seconda.