Tokyo, 17 dicembre 1989. National Stadium, mezzogiorno ora locale. Migliaia di spettatori e un suono di trombette che accompagna tutta la durata della partita. 120 minuti di un rumore inconfondibile. 120 minuti per decidere il vincitore della ventottesima edizione della Coppa Intercontinentale, quella che poi sarebbe mutata nell’attuale Mondiale per club. Gara unica, tra la vincitrice della Coppa dei Campioni, il Milan, e quella della Copa Libertadores de América (la Coppa Liberatori d’America), l’Atletico Nacional di Medellín, alla sua prima partecipazione al massimo trofeo mondiale per squadre di club.

Quello della finale di Tokyo è il Milan degli olandesi, il Milan di Sacchi, il Milan dai mille segni di riconoscimento. La stessa squadra che ha in campo alcuni futuri grandi allenatori. Rijkaard, capace di ripetere da mister le imprese compiute da calciatore. Carlo Ancelotti, che da allenatore sarà destinato a inanellare i maggiori successi internazionali, consacrandolo tra i più grandi della storia. Un grande calciatore e un grande allenatore. Entrambi capaci di vincere davvero tanto. Dall’altra parte il Nacional di Medellin, che è interamente formato da calciatori colombiani, porta con sé altri segni di riconoscimento, per nulla prossimi al calcio e al terreno di gioco. Il nome della squadra colombiana rievoca nessi di altro tipo, drammatici e impronunciabili. Il luogocomunismo del pallone attraversa il nome di questa squadra riconducendolo ai cartelli narcotrafficanti e a ben altre preoccupazioni. Ma la squadra allenata da Francisco Maturana ha imposto il nome di Medellin a tutto il calcio sudamericano. Anche i colossi brasiliani e argentini hanno dovuto cedere il passo.

In porta il Medellin schiera René Higuita, portiere goleador spericolato e imprevedibile. Un personaggio che farà parlare di sé per storie di doping, di politica e di indagini giudiziarie. Condannato per aver mediato il riscatto di un sequestro senza aver avvisato la polizia, trovato positivo alla cocaina e candidato sindaco proprio in una piccola città vicina a Medellin.

La vigilia vede favorito il Milan, anche senza Gullit in campo, ma i novanta minuti dicono di una gara tattica e per nulla spettacolare. L’unico ad essere spettacolare è proprio il portiere colombiano, che si toglie lo sfizio di dribblare Van Basten e di irridere gli attaccanti milanisti con uscite che farebbero tremare qualsiasi compagno di reparto. Quello che poteva diventare un facile trionfo per i rossoneri si trasforma in una maratona tutta corsa sui nervi e la concentrazione. Dopo i tempi regolamentari, finiti a reti bianche, l’arbitro manda le squadre ai tempi supplementari. Dopo alcuni tentativi offensivi del Milan, quando i tempi supplementari sono ormai quasi scaduti, Evani batte quasi a sorpresa un calcio di punizione dal limite dell’area, ingannando Higuita e la barriera, e regalando al club rossonero il secondo titolo intercontinentale della sua storia. Lo stesso Evani che era stato protagonista decisivo nella sfida di Supercoppa europea col Barcellona, veste nuovamente i panni del match winner realizzando la rete determinante per la conquista dell’ennesimo trofeo internazionale da parte di un Milan che sarà capace di ripetersi negli anni successivi.

Un goal all’ultimo minuto dei supplementari e una serie di uscite al cardiopalma di un portiere che amava giocare anche lontano dalla sua porta. Anche in regimi tattici così rigorosi e scientifici il calcio riesce a trovare la dimensione imprevedibile delle cose. La finale di Tokyo del 1989 sarà sempre ricordata per questo.

Curiosità. L’ultima edizione della Copa Libertadores de América è stata vinta proprio dall’Atlético Nacional de Medellín. Squadra che continua a essere quasi totalmente colombiana e che non ha più Higuita tra i pali.