Ciao. Mi chiamo Francesco. Sono un appassionato di calcio, ed inizio a non appassionarmi più ad un campionato che da 5 - quasi 6 - anni vede una sola, vera, protagonista e vincitrice annunciata.

Ciao. Mi chiamo Alessio. Sono un tifoso, guardo migliaia di partite, sono innamorato della Serie A e sono stanco di vedere lo scudetto assegnato a tre sole squadre da oltre 15 anni.

Ciao. Mi chiamo Cristian. Amo questo gioco, ma pensare che ancora una volta, e per il sesto anno, lo scudetto sarà assegnato alla stessa squadra, peraltro ancora una volta a marzo, mortifica me ed il mio ardore sportivo. 

Sembra di vivere in uno di quei gruppi di auto-mutuo-aiuto alla 'Ma che colpa abbiamo noi'.

Non ci sono - quantomeno all'apparenza -, però, problemi di anoressia, ossessioni multiple, insonnia, depressione. O, quantomeno, esistono ma solo se applicati alla Serie A: un campionato che anzitutto andrebbe profondamente rivisto sotto il profilo strutturale ma che, per tornare ai fasti d'un tempo, dovrebbe anche iniziare a proporre delle valide e concrete concorrenti alla squadra che lo domina in lungo e in largo, ormai da un'epoca calcistica. E che paradossalmente si ritrova, dopo aver pareggiato - risultato che non si verificava da oltre un anno, da Bologna-Juve del febbraio 2016 - e non vinto una partita relativamente facile, ad aver guadagnato un punto sulla sua prima inseguitrice.

Una società che, con merito, ha quindi ora 8 punti di vantaggio sulla seconda (con solo 11 giornate ancora da giocare), che si appresta a vincere il suo 32° titolo (il sesto consecutivo), e che con buona probabilità giocherà la finale della Coppa Italia che peraltro ha già vinto 11 volte, e potrebbe vincere per la terza consecutiva.

Chi vince così tanto, e per così tanto tempo, non può non avere la tifoseria più folta del Paese. A chiunque piace vincere, e scegliere una squadra che tendenzialmente lo fa più spesso delle altre può ovviamente servire a sentirsi vincenti con maggiore facilità. E' una dinamica umana, naturale quanto un processo biologico ed inoppugnabilmente radicato in una necessità quasi darwiniana che fa parte dell'essere umano.

Il problema, semmai, è di chi, per scelta, emozione, memoria, connotazione geografica, generazionale e/o familiare, preferisce una strada un po' più tortuosa- e per questo forse anche virtuosa - a questa. E decide che la sua fede sarà rossonera, nerazzurra, biancazzurra, azzurra, viola, celeste, gialloverde o fucsiavorio. A quel punto, considerato che esiste (a maggior ragione in quest'epoca) un oggettivo monopolio, nel momento in cui si opera una scelta e ci si instaura una fede apparentemente masoschista, a quel monopolio ci si oppone automaticamente. Ed a priori. Ecco perché l'Italia è quel Paese che si divide non solo in borghesi e proletari, belli e brutti, carnivori e vegetariani, ma anche e soprattutto in juventini ed anti-juventini. Ed a prescindere dalla bontà di ambo le appartenenze, quando si vede la Juventus - per meriti propri e demeriti altrui - vincere il campionato a marzo, per buona metà del Paese pallonaro non può non indirsi il lutto sportivo.

Mai nessuno, in Italia, ha mai vinto sei campionati di fila. E nessuno ha mai neanche vinto tre Coppa Italia consecutive. Questa squadra, che peraltro è ancora in lotta anche in Europa, s'appresta a farlo. Ed al netto degli ovvi complimenti che vanno fatti all'allenatore (anzi, agli allenatori, Conte e Allegri), ai calciatori, e soprattutto ai dirigenti capaci di svecchiare la rosa e mantenerla egualmente competitiva, non si può non provare un senso di profonda mestizia per lo stato poco competitivo, e per questo ammaliante, del nostro calcio. Sono lontani i tempi delle lotte fratricide in vetta, e con essi anche quelli delle vette finanziarie dei club di casa nostra: non che le due cose siano strettamente correlate, ma una riflessione, quantomeno, sembra d'obbligo farla. Fin quando tutti potevano spendere, e tanto (talvolta troppo), il campionato era più equilibrato e, di rimando, appassionante. Nel momento in cui le spese si sono mediamente livellate verso il basso, ed una sola squadra è riuscita, virtuosamente, a spendere più delle altre, sono emerse delle vere differenze di valori, che si sono ripercosse anche sui suddetti equilibri. La Juventus, che tendenzialmente ha sempre investito meglio quel poco di più che aveva, è riuscita anno dopo anno ad amplificare il gap, sia tecnico che finanziario, che la stagliava verso l'alto, e si ritrova oggi ad amministrarlo con altrettanta lungimiranza. L'unica squadra che, per valori tecnici e futuribilità della rosa, pare poterla contrastare a lungo termine è il Napoli. Che, non a caso, dopo aver ceduto Higuain (che però va per i 30) alla stessa Juventus, è andata a investire i famigerati 90 milioni della clausola su una lunga serie di potenziali, ottimi giocatori, come Milik (32 milioni per un classe '94), Rog (12.5 milioni, classe '95), Zielinski (15 milioni, classe '94), Diawara (15 milioni, classe '97) e Maksimovic (25 milioni, classe '91). Praticamente metà squadra, da utilizzare con profitto da qui agli anni a venire per crearsi una colonna vertebrale ben definita (per poter quindi a monetizzare vendendo i calciatori meno giovani), oppure andando a rivendere a cifre, ovviamente, maggiorate, di modo da autofinanziare la propria, ulteriore, crescita. Non che la Juventus, ovviamente, sia meno attenta al proprio futuro: anzi. L'acquisto dell'accoppiata Rugani - Caldara (entrambi '94) a distanza relativamente ravvicinata, e nonostante titolare sia ancora la B-B-C, è un segnale evidente di come, anche in futuro, la Signora vorrà ripartire dalle sue fondamenta difensive per costruirsi un futuro altrettanto vincente. E' per questo che, per quanto ne sappiamo, ogni possibile sforzo, da qui a qualche mese, verrà fatto per provare a strappare al Milan il calciatore difensivo ad oggi più decisivo e futuribile di tutti, ovvero quel Gigio Donnarumma ('99) il cui agente, mai come in questa fase, si pone lontano da una società che è stata presa in giro (anche) dai fantomatici, e non meglio definiti, investitori cinesi. Senza dimenticare che in squadra c'è sempre un calciatore capace di fare già oggi la differenza a tutti i livelli - Dybala, '93 - che rappresenta a sua volta una possibilità di monetizzazione di sconfinato valore. Dietro a loro, e non poco, partono anche Inter e Roma, che hanno provato con alterni successi (vedi Gagliardini e Gabigol, Gerson e Salah), negli ultimi tempi ad investire sul proprio futuro. Tutte considerazioni, in ogni caso, che vanno a rendersi potenzialmente realistiche solo da qui a diverso tempo. Ad oggi il campionato continua a vedere sul palco una sola attrice, con le altre a fare da comparse, ed anche dal numero limitato di battute. Ad equivalersi, in realtà, come confermato dalla sfida di ieri tra Roma e Napoli all'Olimpico, o come potrebbe capitare, alla lunga, a Milan, Inter, Fiorentina e Lazio, pur rimanendo sempre più o meno distanti dalla capolista. Rendendo l'ennesimo campionato prevedibile e stantìo, e rimandando un po' tutti, tifosi bianconeri compresi, all'estate delle speranze e delle promesse. Di recupero, di rivincita, di proiezioni. Troppo, davvero troppo spesso disattese. Tutte. Come un film dallo sviluppo già scritto, una trama dal finale già letto. E, per questo, sempre più brutto di quanto realmente potrebbe essere e vorremmo che fosse.