Se davvero, come si dice, Roberto Baggio è stato, rispetto a tutti gli altri, talmente grande da essere trasversale, e talmente trasversale da essere di nessuno e di tutti, da incarnare l’azzurro come e più che i colori di una squadra di club, da essere la bandiera non di questo o di quello, ma dell’italiano e dell’italianità, il Mondiale del 1994 non è solo il suo punto più alto: è il suo compendio assoluto, il Bignami della sua grandezza, il trailer di quel kolossal che è stata la sua carriera, dal Franchi al Delle Alpi, da San Siro a San Siro, dal Dall’Ara al Rigamonti.

Non c’è stato Baggio, come il Baggio di Usa ’94. Amato, sostenuto, discusso, foriero di magia e di disperazione. Unico.

Non prometteva d’essere una passeggiata di salute, l’avventura statunitense del Divin Codino: il peso schiacciante della responsabilità del Pallone d’Oro conquistato pochi mesi prima, lo stato di forma non eccelso, il carico del minimo bagaglio di juventinità nell’ItalMilan di Arrigo Sacchi, nel quale la seconda squadra rappresentata, per dire, era il Parma di Nevio Scala. In barba alle promesse, e in base alle premesse, per il n.10 azzurro non sarebbe stato facile, prendersi quell’Italia.

Arrigo e Roby, amore tormentato (Getty Images)

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E, infatti, le prime gare di quel Mondiale, del suo Mondiale, quello della consacrazione, dopo l’abbagliante Italia ’90 che lo fece conoscere al globo, nonostante quel che poi è rimasto consegnato alla leggenda, somigliano molto a un calvario, per Roby Baggio. L’attaccante azzurro non segna, e non convince, in tutta la prima fase, quella dei gironi: ci portano avanti, dopo la sconfitta con l’Irlanda, una rete del Baggio di centrocampo, Dino, contro la Norvegia, e la rete di Massaro per il vitale pari con il Messico. Ad essere nell’occhio del ciclone è tutto il progetto di Sacchi, salvato solo da un russo di nome Oleg Salenko , che il 28 giugno, con la Russia già eliminata ammazza il Camerun con 5 reti personali nel 6-1 finale che boccia la nazionale africana e permette agli azzurri di entrare tra le migliori terze, per il rotto della cuffia. Entra nella storia, e non nella maniera migliore, lo sbigottimento di Baggio, al momento della sua sostituzione per far entrare Marchegiani, quando Pagliuca viene espulso contro gli scandinavi. Per i polemici da carta stampata e da bar è puro miele, e il Paese, come accadrà periodicamente di lì in avanti, si dividerà tra partito pro-Baggio e partito contro.

Ma, da lì in poi, e nonostante le sue condizioni fisiche non alimentino speranze, Baggio mette tutti d’accordo. Agli ottavi c’è la rivelazione Nigeria, e il Mondiale da incubo dell’Italia di Sacchi sta per compiersi nella maniera più fragorosa e sconcertante: azzurri sotto di una rete, quella di Amunike nel primo tempo, e di un uomo, perché il Mondiale di Signori è finito su una seconda ammonizione per simulazione che Brizio Carter ha deciso per rendere ancora più avvincenti le cose, e consegnare quel Nigeria-Italia alla storia del calcio e del Paese. Fortunatamente per noi, per Sacchi, e per lui, stavolta Baggio è rimasto in campo, nonostante l’inferiorità numerica. A due minuti dal recupero, quando, racconterà spesso Sacchi, “negli occhi c’era un’immagine: noi, eliminati, sull’aereo che ci stata riportando a casa”, Roberto Baggio decide di iniziare a scrivere la pagina più leggendaria della sua carriera. Mussi sembra Garrincha e sfonda sulla destra, palla al centro e Baggio segna, ci riporta in vita, e al 12’ del secondo tempo supplementare trasforma il rigore che ci porta agli ottavi. “Mi mancava il gol, mi mancava far qualcosa di importante per la mia Nazionale”, racconta anni dopo. E’ l’inizio del suo Mondiale, e anche di quello dell’Italia.

L’avventura a stelle e strisce degli azzurri continuerà ad essere la cosa più lontana da una passeggiata che si possa immaginare, ma è un altro Baggio, e torna a colpire, prima nella delicatissima sfida contro la Spagna, in coppia con Dino, e ancora al suo momento preferito, quando la partita sta scivolando verso il 90’: è l’87’ quando riscocca il momento Baggio, e stavolta punisce gli iberici. 2-1 per noi il finale, e medesimo è il risultato nella semifinale, contro l’altra rivelazione di Usa ’94, la Bulgaria di Hristo Stoichkov. Che segna, ma Baggio ne fa uno di più: strepitoso l’1-0 al 21’ del primo tempo, con un destro a giro dopo essersi accentrato superando due uomini, con il Giants Stadium che viene giù. Il raddoppio quattro minuti dopo, nel momento migliore del mondiale azzurro: dopo il palo di Albertini, è il centrocampista rossonero a imbeccare con un pallonetto Baggio, che con un diagonale mette la quinta firma, e diventa vicecapocannoniere del torneo.

Come nei grandi film drammatici, sul più bello c’è quel qualcosa che ti accompagna verso il finale triste che renderà quella storia, troppo bella per essere perfetta, consegnata alla memoria e al sentimento. Perchè se amiamo sempre di più i film senza lieto fine, un motivo ci sarà.

Il rigore sbagliato con il Brasile, che tormenterà Baggio per anni, parte dallo stiramento riportato nel secondo tempo contro la Bulgaria. Baggio non sta bene, ma Sacchi, adesso no, contro i verdeoro in finale non può proprio rinunciarci. Al Rose Bowl Roby è l’ombra di sè stesso, e non potrebbe essere diversamente. Tutta l’Italia è appannata. I rigori sono storia: il rigore di Roberto Baggio non sarebbe stato decisivo, realizzarlo non sarebbe bastato comunque, in caso di successiva rete dei brasiliani, ma di questo non si ricorderà nessuno, perchè l’immagine da tramandare ai posteri è quel pallone calciato dal numero 10 che vola sopra la traversa. Usa ’94 vuol dire e vorrà dire Roberto Baggio, nel bene e nel male, questo è evidente, fino alla fine.

Usa'94, il finale drammatico (Getty Images)

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Ma se è quella l’immagine che passa alla storia, vuol dire anche il contrario: che Roberto Baggio è Usa ’94. Che è compendio, Bignami: la parabola calcistica del Codino più discusso d’Italia è tutta nella meravigliosa incompiuta statunitense. Tutta la carriera del più grande giocatore italiano degli ultimi trent’anni, ma senza mai la gioia di una Coppa Campioni, ad esempio, con due soli scudetti in 21 anni di calcio giocato, può stare simbolicamente tutta in quella spedizione americana, senza coppa al cielo alla fine. Perché alla fine di quel Mondiale in cui l’abbiamo discussso, ammirato, odiato, amato, c’è quel rigore. Quel rigore che ce l’ha reso ancora più nostro. Ancora più indimenticabile. E che ce lo fa mancare ancora di più.