Quando Roberto Baggio nasce nella sua Caldogno, nel 1967, è l’anno in cui esce The Piper at the Gates of Dawn, primo album in studio dei Pink Floyd, LP in cui l’estro di Syd Barrett desta il mondo della musica con alcuni brani che la critica non stenta a definire geniali e senza precedenti.

Syd Barrett, la reincarnazione di Ludwig van Beethoven prestata al rock e al contemporaneo. Un musicista finito troppo presto dietro i paraventi di se stesso al confino ultimo e inaccessibile di una solitudine mai del tutto comprensibile. L’anno di nascita del “pifferaio ai cancelli dell’alba” è anche l’anno di Roberto Baggio, colui che sarà soprannominato Raffaello e il Divin Codino, nomi che rievocano un dolce stil novo del gioco del calcio che oggi nessun calciatore sarebbe in grado di interpretare.

“Se mi voglio divertire in una partita di calcio, guardo quelle dove gioca Roberto Baggio” dirà un giorno Diego Armando Maradona, grande estimatore del calciatore, secondo molti appassionati, più raffinato e fantasioso della storia del calcio italiano.

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E pensare che il potentato juventino, per bocca di Agnelli e Platini, in più d’una occasione non ha esitato a definire al limite del disprezzo con allegorie sarcastiche del tipo “coniglio bagnato”“un nove e mezzo”, alludendo a una presunta codardia del calciatore durante le partite. Una incapacità di essere decisivo nei momenti importanti ingiustamente attribuita quanto la sua altrettanto menzognera mancanza di coraggio.

Parliamo di un fuoriclasse, il fuoriclasse, costretto a giocare per una vita con una gamba malconcia, vittima di un infortunio patito già all’età di diciotto anni. In Baggio c’è tutto il campionario malinconico, derelitto, glorioso e incompreso dei più grandi calciatori della storia. I suoi movimenti, le sue giocate e i suoi goal testimoniano l’ultimo profeta della genialità in mezzo a un campo di calcio. Dalla rivelazione fiorentina alla consacrazione dopo l’ingaggio presso la società più potente d’Italia, lasciandosi strappare da un luogo dove gli avevano voluto tanto bene, consapevole che lo stesso affetto non gli sarebbe stato garantito dove invece reggere è una faccenda di attitudine a un calcio sistemato secondo una cultura industriale.

Roberto Baggio è stato l’ultimo grande linguista del calcio italiano, il calciatore capace di esprimere una fantasia e un’imprevedibilità, oltre che un’eleganza, talmente uniche da fargli comporre, poco per volta, un nuovo dizionario del gioco, con la firma inconfondibile al modo di dribblare, di calciare in porta, di passare la palla ai compagni, di segnare, di correre, di muoversi, di leggere il gioco.

Roberto Baggio, insomma, è stato l’ultimo grande autore del calcio, atleta danneggiato in principio, segretamente e silenziosamente condannato a una resistenza a questo danno per tutta la sua vita di calciatore. Il Baggio calciatore è stato l’ultimo grande poeta “perseguitato” del pallone, un Nazim Hikmet della serie A e della nazionale. Le sue gesta, anch’esse paradossalmente strattonate da un destino maledetto, con due vittorie mondiali sfiorate e perdute ai calci di rigore (la semifinale del 1990 e la finale del 1994), sono finite nel gelido e ingrato incompreso del calcio italiano, anche di una nazionale che a un certo punto gli ha imposto un continuo dentro fuori probabilmente irriverente rispetto alla sua dimensione e al suo valore. Pochi allenatori hanno avuto veramente fiducia di lui.

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Quando, dopo il suo ritiro, il sistema politico ha voluto apparentemente manifestare una forma di considerazione nei suoi riguardi, con l’incarico di direzione del settore giovanile della nazionale, lo ha pure indotto a lasciar perdere, perché a quelli come Baggio, fuori dalla righe nel vero senso della parola, liberi da vanità di evasione, in grado di scovare la strada alla spiritualità anche col coraggio di rivelarsi inclini ad altre strade, non si può chiedere di fare da volto e basta a un’idea, a un’intenzione. Tuttavia, il calcio italiano a Roberto Baggio ha fatto fare anche anticamera. E allora, forse, meglio lasciar perdere.

Roberto Baggio, uno che in fondo ha vinto poco, direbbero in molti, ma che, se si va a dare un’occhiata ai riconoscimenti che Baggio ha ricevuto durante, ma soprattutto dopo la sua carriera, si comprende di quanto Baggio sia stato sempre Baggio dall’inizio fino alla fine, o forse ancora di più, sia dentro le sue discusse esperienze alla Juve, al Milan e all’Inter, sia quando ha “riparato” presso la provincia della serie A, in quel Bologna e in quel Brescia dove ha trasformato il rischio dell’esilio in una rigenerazione della sua grandezza, testimoniata, poi, maggiormente dai riconoscimenti individuali più che dai successi da palmares. Roberto Baggio, di fatto, è stato anche l’ultimo personaggio mondiale del calcio italiano. Anche in questo, nel suo carisma e nella sua capacità di rappresentarsi da solo, sopravvivono gli elementi tipici dei campioni leggendari.

Come lui stesso ha scritto in una delle sue biografie, gli hanno dato pure del “malato immaginario”, irriguardosa e sbrigativa definizione rivolta alla sua testa abbassata o ai suoi momenti di stanca, durante le fasi di difficoltà che toccano a chiunque frequenti quell’ambiente. Eppure, nonostante le violazioni psicologiche che il calcio non risparmia a nessuno, di Roberto Baggio resta la sua letteratura del pallone, il suo dizionario delle giocate. L’impresa che più conta nel significato più profondo di questa disciplina. E lui, il “Divin codino”, non ha mai fatto mistero di rivelare che tutto questo resta davanti ai suoi occhi. Il mezzo secolo compiuto da Roberto Baggio è gli anni che hanno aspettato uno come lui e, probabilmente, quelli nei quali desiderarlo ancora, uno come lui.