18 gennaio 1977, Roma: sono le 19.30, tre persone entrano in una gioielleria di Roma, “Arte Orafa Tabocchini”, in via Francesco Saverio Nitti, nel quartiere Flaminio, sulla Collina Fleming, due chilometri e mezzo dallo Stadio Olimpico. Pochi minuti, si sente uno sparo. Ambulanza, polizia. Dei tre che erano entrati, escono in due. L'altro è in barella, i paramedici lo portano all'Ospedale San Giacomo, dove muore. Ancora oggi, nessuno sa dire con sicurezza perché la vita di Luciano Re Cecconi sia finita così.

S'è scritto tanto su quell'omicidio. Tantissimo. Eppure alcune ombre continuano a coprire i motivi che portarono Bruno Tabocchini, il proprietario della gioielleria “Arte Orafa Tabocchini”, a sparare al ventinovenne centrocampista della Lazio di Maestrelli. I dubbi erano, e sono, ovvi e banali: come faceva Tabocchini a non conoscere uno dei giocatori più riconoscibili della squadra che pochi anni prima aveva vinto lo scudetto? Re Cecconi, per di più, abitava lì vicino: possibile che nessuno l'avesse mai indicato al gioielliere? E Tabocchini non conosceva nemmeno Pietro Ghedin, pure lui difensore della Lazio, che era entrato con lui? E, soprattutto, perché sparò nonostante la presenza del profumiere Giorgio Fraticcioli, amico dei calciatori e conoscente proprio del gioielliere?

Secondo la vulgata, Re Cecconi entrò nella gioielleria con il bavero del cappotto alzato, mimando una pistola in tasca, urlando “questa è una rapina”: uno scherzo, ma sufficiente a far scattare l'istinto di sopravvivenza di un commerciante che aveva già avuto a che fare con diversi ladri. Una tradizione quasi leggendaria, ma poco convincente, fatta di altri particolari: Tabocchini puntò quel revolver Walther prima su Ghedin, abbastanza pronto ad alzare le mani in segno di resa, e poi su Re Cecconi, fatalmente meno veloce; Tabocchini non seguiva il calcio, anzi: Tabocchini non aveva mai visto neanche una partita. 

Si dice e si tramanda questa versione anche per quello che era la Lazio di Maestrelli. E cioè un gruppo di ragazzi vicini all'estrema destra e appassionati di armi. Che poi, dire un gruppo è sbagliato: erano almeno due gruppi, o meglio due fazioni, che si odiavano peggio di guelfi e ghibellini nella Firenze del Duecento. Gente che aspettava la partitella del giovedì più della partita della domenica, perché nel test di allenamento si dividevano nei soliti gruppi e se le davano di santa ragione, roba che Neymar se la sarebbe data a gambe dopo due minuti. Gente che però riusciva a diventare squadra unita sotto la guida del Maestro, la vera figura mitologica della lazialità, uno che viene religiosamente ricordato ancora oggi, nell'inno, prima di ogni partita. Uno che, tragica fatalità, era morto per un tumore un mese e mezzo prima che Re Cecconi entrasse nella gioielleria “Arte Orafa Tabocchini”.

Quindi: uno spogliatoio doppio, frequentato da fascisti armati. Basta questo per giustificare quell'assurda morte? No. Anche perché a Luciano Re Cecconi non piacevano le armi, anche perché Luciano Re Cecconi era per tutti “il saggio”. E non pare esattamente saggio, nel pieno degli anni di piombo, simulare una rapina in un negozio in cui non sei certo d'essere conosciuto. Lo scherzo della rapina era stato messo in scena diverse dai giocatori della Lazio, ma sempre in posti in cui li conoscevano. Possibile che tutta quella saggezza si fosse prosciugata all'improvviso? Possibile che un ragazzo di ventinove anni, nel pieno della carriera, benestante, sposato, padre di un figlio e con una figlia in arrivo, decidesse di fare una così clamorosa cazzata?

La verità vera, forse, la sappiamo. O forse no. Pietro Ghedin, anni dopo, disse all'Unità: “Si è scritto molto, si è parlato tanto e a volte non bene. Qualcuno ha stravolto l'episodio, evidenziando cose non vere di Luciano. Quel giorno non ci fu nulla di premeditato, di previsto. Se fossi morto io non avrei saputo perché”. È stata una delle rare volte (e l'ultima) che Ghedin, oggi commissario tecnico di Malta, ha parlato di quella sera di quarant'anni fa. La sera in cui tre persone entrarono in una gioielleria di Roma, “Arte Orafa Tabocchini”, in via Francesco Saverio Nitti, nel quartiere Flaminio, sulla Collina Fleming, a due chilometri e mezzo dallo Stadio Olimpico, e pochi minuti dopo si sentì uno sparo.