Quelle che portano in alto, in classifica, non sono le vittorie larghe, spettacolari, roboanti. Soprattutto in Italia, in verità, quelle che pesano maggiormente, a fine anno, sono quelle risicate, strappate al caso con la forza della convinzione, cinismo, ed un pizzico di fortuna. Quelle, per intenderci, che hanno aiutato la marcia indefessa della Juventus nell'ultimo lustro: una trafila di punti a tre a tre racimolati spesso di misura, e con la freddezza tipica di chi sa di potercela fare, anche solo grazie ad una giocata sul filo di lana, e tenendo ben salda e quadrata la propria impostazione difensiva. Quelle che sono riuscite a concretizzare, al di là del merito, Napoli e Inter. Mai così mature sotto il profilo mentale, mai così efficaci sotto quello del gioco. Ed ora, più che mai, tornate a fare la voce grossa in zona Champions League.

Sono due squadre ancora incomplete, ma qualitativamente non inferiori a nessuna delle altre, Napoli e Inter. Il gap che le separa in classifica è più che altro dovuto alla falsa partenza dei nerazzurri, rei di essersi affidati senza apparente motivo ad un tecnico fuori luogo, con evidenti limiti comunicativi ed inadatto al calcio italiano come de Boer, prima di assecondare la scelta più logica che ha portato a Pioli: il meno affascinante, per la nuova proprietà cinese, ingolosita da raffinati esotismi; il più indicato, per chi invece, nell'organigramma attuale, mastica calcio da una vita. Mai scelta fu più azzeccata, a conti fatti: la gestione di Kondogbia, Brozovic, Joao Mario e Banega è diventata razionale e distaccata, così come l'idea di rilanciare Medel da difensore - una piccola novità che a breve verrà riproposta - e D'Ambrosio in fascia. Davanti, la manovra orchestrata da Icardi, Perisic e Candreva è divenuta finalmente armonica, e dietro la solidità di Miranda è tornata ad esser quella d'un tempo. Resta ancora da sviscerare il surreale caso Gabigol, ma finché i punti arrivano e continuano ad arrivare, il problema è solo di noi opinionisti. Anche a Udine, in una partita che poteva tranquillamente terminare sull'1-1, il brasiliano non è stato impiegato: ma è stato sufficiente incernierarsi su un Perisic mai così decisivo in zona gol e disinnescare Zapata e Thereau, e fare perno sulle (poche) indecisioni dell'ottima squadra di Delneri, peraltro sospinta da un pubblico sempre più divertito da un modo di fare calcio che, al Friuli, non si vedeva davvero da molto tempo. Ora all'Inter servirà solo razionalizzare una sessione di mercato che ha già portato in dote un acquisto di importanza vitale come Gagliardini, che però andrà di fatto a togliere ulteriore spazio ai 4 attuali centrocampisti, ognuno con le sue legittime pretese di campo. L'operazione sfoltimento, intanto, è stata avviata: Felipe Melo è tornato in Brasile, ed a breve anche Gnoukouri, Santon, Miangue, Yao, Biabiany, Jovetic e Palacio potrebbero lasciare Milano, di modo da consentire a Pioli di lavorare su un gruppo più ristretto ed omogeneo. Cosa che invece, da tempo, Giuntoli e Sarri hanno deciso, giustamente, di fare: i titolari alle pendici del Vesuvio sono diventati 14-15 e non più 12-13, le alternative sono tutte di primissimo spessore, e soprattutto, con l'arrivo di Pavoletti, sono stati risolti anche i problemi offensivi. Che un Mertens mai così in palla era riuscito a tamponare, pur senza incarnare - se non in modo transitorio e personalizzato - il ruolo di centravanti che una squadra che produce una mole di gioco immensa necessita. Contro la Sampdoria, d'altra parte, sono stati necessari due tra i timbri più improbabili che ci si potevano aspettare: quello d'un calciatore in partenza, come l'ex Gabbiadini, e d'un calciatore da ritrovare (anche per la Nazionale), per quanto possibile, come Tonelli. I cui primi 90' stagionali sono stati non solo impeccabili, ma anche incoronati da un gol, arrivato a tempo scaduto, che vale, oltre ai tre punti, anche un premio alla costanza ed al sacrificio dopo un semestre silenzioso e difficile. Una rete che però, d'altro canto, va ingiustamente a punire oltremodo una Sampdoria bella e quadrata, che è andata in vantaggio e poi è stata punita dalle disattenzioni sue e d'un arbitro che, nel caso del rosso a Silvestre, s'è fatto trascinare dalla rabbiosa cornice del San Paolo e dalla piccola sceneggiata di Reina. Ingenuo l'argentino, nell'avvicinarsi al portiere in fase di rilancio; non proprio sportivamente ammirevole lo spagnolo, che nel post partita è andato addirittura a reclamare la convinzione della sua posizione, nonostante le telecamere certificassero ben altro. Ma anche questo è un modo, per inciso, per imporre la propria forza. Forza che il Napoli, che adesso ha anche imparato a guadagnarsi piccoli vantaggi come questo, ha fatto sua, e che ha certificato marchiando a fuoco la partita al 95': roba da grandi, roba da squadre che sanno di dover vincere e che sono disposte a tutto - nel senso buono, per carità - pur di farlo. Perché sugli almanacchi, a restare impresse, sono i punti totali e le posizioni in classifica, non il modo in cui singolarmente ogni punto è stato strappato agli avversari. Più in alto si è, d'altra parte, più bravi si deve essere a moltiplicare le proprie modalità di vittoria. Perchè ognuna di esse, pur giungendo in maniera diversa, vale ugualmente. Ma quando si vince senza strafare, preservandosi per sfide più determinanti ed impegnative, il valore schizza alle stelle.