Supercoppa 2016 al Milan (getty)

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Nel Milan, che ieri sera ha battuto la Juventus a margine d'una gara divertente, equilibrata, ed, in alcuni tratti, addirittura serrata - nonostante il clima da grottesca e kitsch pièce teatrale che abitava lo stadio di Doha - partita, praticamente nessuno aveva mai vinto nulla. Gli unici ad aver vinto qualcosina (comunque nulla, in confronto a quanto fatto dal blocco Juve) erano Abate e Bacca: tra l'altro, tra i peggiori in campo. Dall'altra parte, c'era quella che, semplicisticamente, chiameremmo 'corazzata': un vasto blocco senatoriale di imperatori del calcio italiano e internazionale, atto a supportare un attacco in cui i campioni si sprecano. E si è notato, visto che durante i tempi supplementari sono stati praticamente solo i bianconeri. Il fato, però, che s'è infranto come il rigore di Mandzukic sulla traversa, e quello di Dybala sulle manone di Gigio Donnarumma, ha voluto che anche stavolta vincesse il peggiore. Ma, soprattutto, il più giovane. Golia.

Chiude il suo ciclo, Silvio Berlusconi, e lo fa con una vittoria: proprio come aveva abituato i tifosi, nell'ultimo trentennio, e fino a 5 stagioni fa. Ma non è la Supercoppa il risultato più importante raggiunto dal nuovo Milan, giovane e italiano, creato quasi randomicamente da un amministratore delegato ormai anch'egli al capolinea, il risultato più importante. E' la natura dei ragazzi che è riuscito a vincerlo, quel trofeo, che rende davvero significativo, a livello addirittura generazione, il trionfo. La squadra che in Qatar ha raggiunto il suo primo importante traguardo è stata la più giovane di tutte le finali giocate nella storia del Diavolo: un'età media di neanche 25 anni, che ha schiantato il record di Rivera e compagni, che quasi 50 anni fa, con una media di 25.5, superarono il Padova in finale di Coppa Italia. Ma non servivano le fredde statistiche, d'altra parte, a testimoniarlo. Le lacrime a fine partita di Manuel Locatelli ed il sorriso sornione di Gigio Donnarumma - due che quando Buffon giocava già in Nazionale non erano neanche nati - sono la testimonianza più vivida d'una nuova generazione di potenziali campioncini che sogna di ripercorrere anche solo a metà la carriera delle stelle che avevano dinanzi. E lo stesso discorso, d'altra parte, vale per i più scafati - si fa per dire - Lapadula, Suso, Bonaventura, De Sciglio, Bertolacci, Pasalic e Kucka. Che pur non essendo più degli sbarbati, ma essendo mediamente nel fiore degli anni, hanno ancora dinanzi a sé diverse stagioni in cui poter dimostrare d'essere dei cardini. Come, di fatto, ed in attesa che il Milan torni grande (ma soprattutto maturo) anche a livello dirigenziale, già sono, al livello che attualmente compete al Milan: ovvero, quello d'una squadra che teoricamente, e inaspettatamente, è ancora al terzo posto, e che spera legittimamente di confermare questa posizione a maggio.

Ne deve fare, ancora, e molta, di strada, il Milan, per riuscirci. Deve anzitutto colmare le lacune che ha a centrocampo ed in difesa, e soprattutto decidere su chi, tra Lapadula e Bacca, intende fondare la propria manovra offensiva. Il lavoro che fanno Bonaventura, Suso, e, quando sarà finalmente pronto anche a livello mentale, Niang, è assolutamente vano se non viene sfruttato: e, ad oggi, il colombiano - per motivi fisici, mentali, o semplicemente legati al mercato - non pare in grado di sfruttarlo. Con l'italo-peruviano in campo, ovviamente, le cose ed il gioco cambiano: il suo modo di partecipare all'azione la rende più avvolgente e meno prevedibile, ma anche la profondità che garantisce, per via del suo gioco arioso, appare inferiore. Inutile dire che Montella, in ogni caso, per la sua forma mentis (ed anche perché, diciamolo, per alcuni versi l'ex Pescara lo ricorda parecchio, da calciatore) preferisca questa seconda strada. Avere un bomber come Bacca a disposizione, ed in panchina, però, non lascerebbe nessuno a cuor leggero. Ecco perché, probabilmente, viste le tante richieste arrivate nelle ultime settimane (Siviglia e West Ham, ma non solo), la scelta migliore sarebbe quella di sacrificarlo all'altare del mercato a fondi zero a cui l'ennesimo rinvio del closing obbliga la società. Una scelta a sua volta non facile da fare, ma che consentirebbe di intervenire sia in mezzo, dove oggettivamente serve altro fosforo e sostanza, sia sugli esterni. Dove, se si dovesse fermare Suso, sarebbero guai seri. Tutte prospettive che Galliani sta valutando, e che continuerà a vagliare, sinergicamente con l'aeroplanino, che intanto a 42 anni porta a casa il suo primo, meritato, trionfo da allenatore. Dopo 7 anni di gavetta, a maggior ragione meritatissimo. Ha preso a luglio in mano una squadra che sembrava poter essere immediatamente potenziata con nuove liquidità, ed invece alla fine farà i conti con una prima stagione a costo, e chilometro, zero. Ha rivalutato una serie di giocatori che erano stati accantonati e fatto esplodere altri che non sembravano ancora pronti. Ha dato una natura tattica, seppur non spumeggiante, ma comunque identificativa, ad una squadra che non ne aveva ormai da una vita, ed oggi raccoglie anche ciò che ha seminato in una carriera da calciatore che, in proporzione al suo valore, gli ha sempre concesso pochissimo. E, soprattutto, regala nuova fiducia ad una tifoseria talmente affamata, in senso viscerale, da non sentirsi per nulla sazia. 

E che, pur perfettamente consapevole del fatto che per i prossimi trionfi serviranno ancora almeno 1-2 anni, ora sa di aver ricominciato un cammino che sembrava ormai quasi completamente dimenticato. Attenzione, ho detto quasi. Perché chi vince non è mai sazio. E, soprattutto, ha tatuato a fuoco come farlo, nel proprio DNA. E quello, che tu sia primo o dodicesimo, in Champions o in Serie B, cinese o italiano, non cambia. Chiedetelo alla Juventus.

Supercoppa 2016 al Milan (getty)

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