Chi segna vince - Segreti e misteri dello sport più popolare al mondo è l’ultima fatica editoriale dello scrittore e giornalista Luciano Wernicke, classe ’69, che ha lavorato per la Agencia Diarios y Noticias (DyN) e le riviste Humor e El Gráfico. Per oltre quindici anni ha insegnato giornalismo presso il Círculo de Periodistas Deportivos e l’Università di Argentina di economia (UADE). Ha scritto e pubblicato diversi libri, tra cui Historias insólitas de los Mundiales de la Copa Libertadores (Planeta, 2015) e Historias insólitas de la Copa América (2016). I suoi libri sono stati pubblicati in Argentina, Uruguay, Colombia, Messico, Brasile e USA.

Chi segna vince (titolo originale ¿Por qué juegan once contra once?), pubblicato nel 2017 dalla Editorial Planeta Colombiana S.A. e dalla De Agostini nell’edizione italiana con la traduzione di Claudia Giordano, scandisce l’epoca dell’evoluzione del gioco del calcio fino alle complesse e articolate regolamentazioni attuali. Cento voci per cento curiosità, dalle origini di un fenomeno che richiama la storia di almeno tre secoli. Quello descritto da Wernicke è un dizionario sull’aneddotica genetica del pallone. Un prontuario dalle molte “Q” e “C”, coi suoi quando, quali, chi e come. Una soddisfazione ai quesiti e alle domande che oggi sarebbero in pochi a porsi. Molti degli argomenti trattati affondano il loro tempo in un volume targato Ottocento. Dalle origini del calcio, passando per i momenti che lo hanno visto svilupparsi in evoluzioni e regolamenti, fino al var, lo scrittore argentino chiarisce i frangenti più significativi dell’epopea pallonara senza trascurare il sacro potere della passione e degli entusiasmi di uno sport che non è soltanto uno sport. Luciano Wernicke ha risposto ad alcune domande nella seguente intervista. 

Luciano Wernicke - © Lucas Peres Alonso

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Quando e da dove parte l’esigenza di lavorare a questo volume?

È un libro che nasce da altri libri che ho pubblicato, grazie al lungo lavoro di indagine che li ha caratterizzati. Un giorno, mentre stavo effettuando delle ricerche, mi sono imbattuto nel primo regolamento del gioco del calcio, datato 1863. In quel testo non si parlava dei calci di rigore, del portiere e di molti altri elementi che oggi sono considerati fondamentali. Allora, ho capito che sarebbe stato importante gettare luce sul lungo processo di evoluzione che ha avuto questo sport.

Per un calcio che ormai viene spesso vissuto come un prodotto di consumo, quanto è importante raccontarne le origini?

Nonostante sia vero che il calcio sia pure “consumato”, come qualcosa di merceologico, è altrettanto vero che la sua realtà è fatta di passioni. Si tratta di un fenomeno che può diventare uno strumento molto importante per avvicinare le persone alla lettura, per fare un esempio. Quando partecipo alle fiere dei libri, mi capita di conoscere persone che mi dicono che i loro figli non leggono, ma che, attraverso il calcio, riescono poco a poco ad avvicinarsi alla lettura. Questo processo di avvicinamento si avvale spesso della passione per il calcio. E tutto questo va ben oltre ogni aspetto consumistico.

C’è qualcosa del calcio che a Luciano Wernicke non piace? Qualcosa di cui farebbe volentieri a meno.

Sì, farei a meno delle mafie, che in Argentina vengono chiamate bandas bravas. Farei a meno dei dirigenti che s’intrufolano nel calcio soltanto per guadagnare soldi, per speculare approfittandosi delle passioni. Perché chi si approfitta delle passioni, in fondo, si approfitta degli esseri umani.

Lei è nato nel 1969. Quando si sono svolti i mondiali argentini del 1978 era più o meno un bambino. Quali ricordi conserva di quel periodo così complesso e drammatico?

Di quegli anni mi porto dentro un concetto per me molto importante. Le persone separavano il calcio dalla dittatura. Invece la dittatura si è servita del calcio. C’è un momento particolare che secondo me dimostra quanto il calcio fosse legato a certi equilibri politici. Si riferisce a quando l’Argentina, da campione in carica, ha partecipato ai mondiali del 1982, in Spagna, mentre era in corso la guerra delle Malvine. Il conflitto è terminato con la resa argentina il giorno dopo la gara inaugurale, persa dalla squadra di Menotti per 1-0. Quella sconfitta ha determinato la fine della necessità di una guerra che, con l’insuccesso della nazionale di calcio avrebbe perso la spinta emotiva popolare. Con un risultato diverso forse sarebbe continuata, con l’unico effetto di mandare a morire una generazione di ragazzi.

Chi segna vince è un piccolo dizionario storico. Se potesse, alla grande storia del calcio cosa o chi aggiungerebbe? Chi meriterebbe di entrarvi godendo di maggiore attenzione?

Secondo me, un personaggio che meriterebbe maggiore attenzione è Charles Alcock, al quale ho reso anche un piccolo omaggio nel libro. Parliamo di colui che ha ufficializzato la FA Cup, che ha introdotto la durata dei novanta minuti di gioco, l’undici come numero di calciatori in formazione, che ha vietato l’uso delle mani e ha fatto sì che fossero introdotte molte altre regole che hanno permesso al calcio di trasformarsi da un gioco a uno sport con le proprie regole. Il suo contributo ha dato al football una forma più chiara e precisa.

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Nel suo volume lei ha citato una frase tratta da un altro libro, Inverting the Pyramid, di Jonathan Wilson, dedicatosi alla storia dello sviluppo delle tattiche di gioco: “In principio era il caos, e il calcio era disordinato”. Oggi lei trova che il calcio si sia in qualche modo “ordinato”?

I calciatori, gli allenatori, i dirigenti e tutti quelli che lavorano nel calcio sono prima di tutto degli esseri umani. In quanto tali ricercano in continuazione un quadro normativo che possa controllarne tutti gli aspetti. Il pallone, invece, rimbalzando qua e là, è un monito di un’imprevedibilità che mette in discussione tutto quanto, presentando nuove necessità che condurranno ad altre innovazioni. Non siamo noi che decidiamo quello che, al contrario, è la palla a determinare. Il calcio in inglese si chiama football. Nel nome è compreso anche il protagonista: il pallone. La palla è capricciosa, decide a suo piacimento. E resta protagonista, col suo caos e la sua imprevedibilità. Non è semplicemente un attrezzo o un oggetto pieno d’aria. Va ben oltre la sua funzione apparente.

Cosa direbbe a chi considera il calcio soltanto qualcosa di oppiaceo e superficiale?

Lo dico come padre di un bambino di che gioca a calcio. Per me una grande rappresentazione di questo fenomeno resta custodita nella gioia dei bambini. La loro passione deve vivere dell’amore per questo gioco, senza altre intenzioni. Capisco che ci siano dei genitori che, individuando del talento nei loro figli, cercano la possibilità di poterne trarre profitto, ma i bambini dovrebbero giocare e basta. Non sono dei lavoratori.

Una metafora a tratti borgesiana?

Borges, in realtà, ha anche denigrato il calcio, definendolo la peggiore invenzione degli inglesi. E io non sono d’accordo. È importante non fermarsi soltanto agli aspetti negativi di un fenomeno. E la gioia dei ragazzini, la loro spensieratezza sono secondo me la parte incontaminabile del calcio. Questo sarebbe un messaggio molto importante da consegnare a chi guarda con sospetto e in maniera sbrigativa a un fenomeno che porta con sé dei valori che vengono compresi già in tenera età. Il calcio come spettacolo, anche da vedere e da godersi da spettatori. Del resto il pallone è pure qualcosa che nella sua storia ha portato con sé grandi dimostrazioni di generosità.

Dal libro e dalle parole di Luciano Wernicke traspare un senso della dedizione a quello che viene percepito prima di tutto come un fenomeno teso a richiamare gli aspetti più sensibili e profondi delle manifestazioni umane. Attraverso il dettaglio. È nella sua cura che si regge il rispetto per qualcosa che ha avuto un inizio e per cui si desidera una lunga prosecuzione. A beneficiarne, come insegnano le storie dei particolari raccolte in Chi segna vince, è il generale che si presenta ai nostri occhi.