Quella che è l’edizione ufficialmente riconosciuta come la prima della storia del Campionato del Mondo di calcio per nazionali si è disputata nel 1930 in Uruguay. Poco più di due settimane, per tredici squadre divise in quattro gruppi. Tre da tre e uno da quattro. Un numero dispari per la prima Coppa del Mondo. A voler essere più precisi, la Coppa Jules Rimet, ribattezzata coppa del mondo soltanto sedici anni dopo. Il trofeo destinato a diventare tra i più celebri della storia del calcio era stato condotto fino in Uruguay a bordo della nave Conte Verde, un transatlantico della Marina mercantile italiana costruito a Genova e il cui viaggio inaugurale era stata una rotta Napoli-New York nel 1923.
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Il campionato del mondo del 1930 ebbe una caratteristica. Nessuno degli incontri disputati durante quella edizione terminò col risultato di parità. Le squadre che si contraddistinsero furono la Jugoslavia, l’Argentina, gli Stati Uniti e l’Uruguay. I padroni di casa si aggiudicarono il trofeo superando il girone con Romania e Perù e battendo in semifinale la Jugoslavia e in finale l’Argentina.

La finale tra uruguaiani e argentini fu preceduta da giorni di grande tensione. Secondo le testimonianze del tempo, alcuni calciatori uruguaiani subirono minacce di morte da parte dei tifosi argentini, mentre l’arbitro della finale, il belga John Langenus, pretese un’assicurazione sulla vita a favore della propria famiglia. Anche la scelta e l’utilizzo del pallone furono ragione di contrasto. Ognuna delle squadre avanzò la richiesta di impiegare il proprio. Allora la federazione internazionale impose di giocare un tempo col pallone argentino e un tempo con quello uruguaiano.

La finale, disputata a Montevideo il 30 luglio del 1930, fu una grande partita. I padroni di casa, dopo essersi portati in vantaggio con un goal di Dorado, subirono il ritorno degli argentini che chiusero il primo tempo avanti col punteggio di 2-1. La ripresa, invece, vide un altro Uruguay, capace di rimontare lo svantaggio e di condurre la gara fino al 4-2 finale. Pedro Cea, detto “El Vasquito", fu tra i grandi protagonisti. Con due ori olimpici, tre primi posti in Coppa America e un Campionato del Mondo, è ancora oggi considerato tra i più grandi calciatori della storia del calcio uruguaiano. Iriarte e compagni regalarono alla propria nazione la prima grande gioia della loro storia calcistica, inducendo il governo uruguaiano a dichiarare un giorno di festa nazionale. L’Uruguay di quell’epoca era davvero la squadra migliore del mondo.

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Quando Il campionato mondiale di calcio, o Coppa del mondo Jules Rimet del 1950, avviò i preparativi per il suo svolgimento, Germania e Giappone furono escluse d’ufficio dalla competizione, perché ritenute le due principali responsabili della seconda guerra mondiale. Lo stesso provvedimento era stato imposto anche in occasione delle Olimpiadi del 1948, disputate a Londra.

Intanto all’Italia, che dal punto di vista ufficiale era campione del mondo in carica, la FIFA aveva garantito un supporto economico per consentire agli italiani di partecipare al mondiale, a causa di quanto accaduto al Grande Torino nella tragedia di Superga. Il viaggio della nazionale italiana avvenne attraverso il mare. Il trauma, infatti, non era ancora stato del tutto rimosso. La nazionale italiana, severamente danneggiata dalla perdita dei calciatori del Torino, non riuscì a qualificarsi per il girone finale. Ci riuscirono, invece, il Brasile padrone di casa e l’Uruguay di Obdulio Varela.

I brasiliani erano i favoriti. Il loro gioco offensivo sembrava irresistibile. Il loro asso, Ademir Marques de Menezes, fu il capocannoniere del torneo. Quando Brasile e Uruguay si ritrovarono a fronteggiarsi a Rio de Janeiro, nella gara decisiva per il titolo, ai brasiliani sarebbe stato sufficiente anche un pareggio per portare a casa il primo trofeo mondiale della loro storia. Il pubblico presente allo stadio Maracanã, un popolo intero, una nazione intera erano convinti che la nazionale verdeoro avrebbe fatto suo il tanto agognato titolo mondiale. Ma non avevano fatto i conti con l’esperienza, l’astuzia, il carattere e l’intelligenza tattica di una scuola che per anni aveva impartito lezioni di calcio a tutto il mondo.

Quando il Brasile si portò in vantaggio con un goal di Albino Friaça Cardoso, tutti pensarono che era finita. Tutti, ma non Obdulio Varela. Nel secondo tempo, il grande Moacir Barbosa Nascimento, portiere del Vasco da Gama, dovette arrendersi due volte alle conclusioni di Schiaffino e Ghiggia, due tra i più forti calciatori uruguaiani. Al fischio finale, davanti a uno stadio incredulo, davanti a un paese in lacrime, l’Uruguay aveva battuto il Brasile con una tra le rimonte più clamorose della storia del futbol. Una rimonta che fu causa di suicidi e depressioni. Una tragedia denominata Maracanazo. Il calcio aveva fatto i conti con il pathos in una misura imprevedibile, sproporzionata. Eppure, il pallone divenne icona della passione popolare, in tutti i sensi. Qualcosa che in quei giorni coinvolse pure gli uruguaiani, vincitori di quella disputa estrema, ebbe il potere di rielaborare un fenomeno umano elevandolo a un rango ampio e incalcolabile.

Un racconto di Osvaldo Soriano, letto in questa celebre interpretazione di Tony Servillo, ne descrive i tratti umanissimi, essenziali, inquietanti e poetici. L’Uruguay aveva vinto il suo secondo mondiale. Anche questa volta lo aveva fatto in rimonta.

Il riposo del re del centrocampo