Scenderà le scale con lo stesso silenzio con cui le ha salite quando le prime facce che ha incontrato sono state quelle della diffidenza. Maurizio Sarri saluta chi ha conquistato. Molti di quelli che gli vogliono bene, e che gliene vorranno ancora, hanno titubato non poco al suo arrivo. Come giusto che fosse, pervasi ingenuamente (chi vi scrive è stato tra questi e, nonostante abbia dedicato più volte articoli di ammirazione a questo allenatore, non può distogliersi dal dovere di confessare anche le sue perplessità) dal timore che un tecnico arrivato dal “basso”, che aveva speso la sua carriera nel calcio minore, che non aveva mai lavorato per provare a vincere, difficilmente avrebbe potuto accendere sulla sua squadra i riflettori dei critici più diffidenti, nonché di uomini di calcio autorevoli e titolati. Fino al limite estremo della precarietà del valore della vittoria. Fino a confutarne quell’assolutismo che oggi caratterizza un intendimento finanziario e spietato del gioco del pallone. Invece, Maurizio Sarri ha lavorato alla passione di una tifoseria e all’ammirazione di molti osservatori. Pure chi ha vinto, forse, serba dentro di sé il timore che il triennio napoletano del tecnico toscano, soprattutto nell’ultimo anno, abbia superato il dovere diplomatico al riconoscimento dei meriti di chi raggiunge la vittoria.

Le scenderà da solo, quelle scale. Così come le ha salite. Infastidito dai clamori e dagli eccessi dei complimenti. Schivo e pensieroso, eternamente insoddisfatto. Come chi dentro di sé cova il rammarico di essere arrivato tardi, di non essere stato predestinato alla distanza della gloria. A volte per quella occorrono un tempo e uno spazio profondi, lunghi, dove il punto di fuga non sa di destinazione finale, ma di concessioni, di disponibilità delle occasioni senza che una frazione compressa ai limiti dell’inverosimile detti la condizione per cui è vietato sbagliare, per cui nemmeno la perfezione è garanzia di successo. Sarebbe superfluo soffermarsi su quello a cui tutti noi abbiamo assistito, su quanto di prodigioso e impronosticabile il suo operato è stato in grado di agire con un’abnegazione che ha ricordato metodi ormai sconosciuti a un’epoca in cui lo zelo e la pazienza sono costretti a sopravvivere alle gelide pressioni di spasmodiche necessità, urgenze, velocità, a discapito del privilegio di goderne forme e contenuti. Che poi, pure nel gioco del pallone c’è chi la felicità la predica e la sbandiera e chi, diversamente, la pratica col suo lavoro.

Come 'Armonica', se ne andrà come Charles Bronson in C’era una volta il West, salutando la città in costruzione, il miracolo ottenuto con sacrifici e perseveranza, a cui però il suo contributo non assisterà, semmai verrà, a un’agognata apoteosi finale. “Ci passerete un giorno o l’altro?”, chiederà qualcuno. E lui, con malinconia risponderà: “Un giorno, o l’altro”.

Scenderà le scale da solo, come è giusto che avvenga, accompagnato dal coro di una folla che gli ha voluto bene come ne ha voluto a pochi. Scenderà le scale portandosi dietro il successo di aver convinto tutti a continuare a gioire e a credere prima di tutto alla propria passione. E, in fondo, di tenersi stretta soprattutto quella. Di Maurizio Sarri si dirà che non ha vinto, che è arrivato “soltanto” secondo, che nel calcio conta vincere e che la bellezza è la consolazione degli sconfitti. Eppure, sorvolare su tutto questo sarà un niente rispetto ai tre anni dedicati a qualcosa che nessuno avrebbe immaginato così potente da lasciare in disordine i sentimenti e le emozioni dei napoletani. L’unica certezza è che un giorno, un giorno lontano, di quelli in cui chi avrà ancora la voglia di raccontare il calcio, di quando le cose saranno altre e diverse, magari meglio disposte a comprendere quello a cui si è assistito, il Napoli di Sarri sarà ricordato con un sorriso di rispetto. Sarà sempre il Napoli di Maurizio Sarri.

Quale dono più bello, quello di percepire l’essenza dell’esperienza nella sua pienezza. Come ha scritto Antonio Machado in una delle sue più celebri poesie, Caminante:

Caminante, no hay camino:

se hace camino al andar.

"Viandante, non esiste sentiero:

si fa la strada nell’andare."

Questo articolo, volutamente, si estranea da ogni discorso o allusione possano riguardare considerazioni sui contratti, la politica societaria, le strategie e gli interessi economici. Queste sono cose a cui troppo spesso capita di accostarsi senza profonda e completa cognizione. Forse sarebbe meglio rendersi conto di quanto invece possano suggerire le parole di quello che seguiamo perché prima di tutto ci emoziona. Con dedica a quelli che, in piena spontaneità, guardano al calcio cercandovi un sogno che sia anche degli altri e non soltanto il proprio. E con dedica, se permettete, ai tre anni di un allenatore che ho imparato ad apprezzare come non avrei immaginato.