Sarò sincero. E' da almeno 36 ore che provo a ragionare su cosa si potrebbe dire, scrivere, o peggio ancora solo pensare, dopo aver perso in Svezia 1-0. E, diciamoci la verità, non potrebbe essere altrimenti, considerato che quello che si sta materializzando di mese in mese prima, di settimana in settimana poi, e di ora in ora adesso, è qualcosa di più di un semplice incubo.

Perché, semplicemente, l'Italia fuori dai Mondiali è un'ipotesi neanche minimamente contemplata e contemplabile. Un'eventualità inconcepibile, surreale, fuori da ogni più drammatica previsione. Un'apocalisse, per usare le parole di qualcuno - Tavecchio - con cui quasi mai ho condiviso un'opinione. Per diversi, tutti validi, motivi.

Il primo: perché non accade da 60 anni. Era il gennaio del 1958, e agli azzurri sarebbe bastato pareggiare a Belfast, nell'ultima delle 4 partite del suo mini-girone che vedeva coinvolte anche Irlanda del Nord e Portogallo (ancora senza Eusebio), per passare il turno. In panchina c'era Alfredo Foni, che fu stella della Juventus negli anni '30, vinse il Mondiale 1938, e da tecnico due scudetti alla guida dell'Inter ('53 e '54). Al suo fianco, una folta e disomogenea 'Commissione tecnica', di cui facevano parte Pasquale, Marmo, Tentorio e Schiavio. In campo, tra gli altri, i tre oriundi Ghiggia, Schiaffino e Montuori. Finì 2-1 per gli irlandesi. E, contestualmente, nel Belpaese ebbe avvio il più grande dramma sportivo dell'epoca, soprattutto se si considera che all'epoca l'Italia era già due volte Campione del Mondo, ed aveva partecipato a tutte le edizioni sino allora disputate, esclusa quella del 1930 (per scelta federale). Qualche settimana dopo, la FIGC arrivò addirittura ad essere commissariata da Bruno Zauli, che ricompose i campionati, misurò l'avvento degli stranieri e l'inserimento degli oriundi, riorganizzò la contrattistica dei professionisti, creò la Lega Nazionale Dilettanti e inaugurò il Centro Tecnico Federale di Coverciano. (Quasi) tutte scelte che vivono ancora adesso, nel nostro calcio. E che, forse, sarebbe arrivato il momento di riammodernare. A prescindere da come andrà domani a San Siro.  
Devo dire di aver visto in campo Nazionali peggiori. E neanche di poco (getty)

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Il secondo: perché questo gruppo e questa rosa non lo meritano. O, per meglio dire, non lo meritano i valori espressi sulla carta da questa Italia, che per buona parte ricorda quello di Conte e che per il resto è fatto da ragazzi - Belotti, Spinazzola, D'Ambrosio, Gagliardini, Bernardeschi e via dicendo - nel pieno degli anni, delle forze e del rendimento. Chi ancora oggi critica il CT per le sue scelte in sede di convocazione, difatti, ha ragione solo per quanto concerne il mancato (anzi, ritardatissimo) coinvolgimento di Jorginho. Perché per il resto vestono la maglia azzurra solo i migliori in assoluto. E sono dei migliori mica da ridere, visto che dopo la rosa campione del Mondo del 2006, sinceramente, fatico a ricordare una varietà così assoluta di ottimi giocatori, in ogni reparto, seppur orfana di campionissimi veri e propri. Pensateci bene: quale Nazionale non si prenderebbe uno solo, a caso, dei nostri 3 portieri? E chi direbbe no, a priori, che so, ad un Bonucci, a un Chiellini, o non sarebbe fiera di di avere in carniere, per il futuro, gente come Rugani, Romagnoli o Caldara? Chi direbbe no a un terzino come il rinato Florenzi, o non convocherebbe Spinazzola o Darmian? Chi può scegliere in regia tra Verratti e Jorginho? E perché tutti vorrebbero Immobile e Belotti? In quante sarebbero disposte a pagare decine e decine di milioni, se Insigne fosse sul mercato?   

Il meme Ventura-Edgar de 'Gli Aristogatti' è il più abusato degli ultimi mesi.

Una certa somiglianza oggettiva, in effetti, c'è.

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Il terzo: perché Giampiero Ventura non è il male assoluto. Anzi. E' un tecnico che si è fatto qualcosa come 35 anni di gavetta, prima di arrivare a diventare Commissario Tecnico, pur senza un curriculum fatto di trionfi e lustrini (che non sempre hanno fatto il paio con i successi azzurri da parte dei vari CT). Nell'estate 2016, quando venne scelto per prendere in mano la pesante eredità di Conte non era facile trovare di meglio, su piazza (e soprattutto alle cifre di cui disponeva la Federazione), e in pochi sembravano scontenti della scelta. Anche perché l'attuale selezionatore veniva da una lunga e felice parentesi al Torino, in cui aveva dimostrato d'essere un tecnico moderno e dalla vocazione spettacolare e offensiva. Un modo come un altro per dare nuova linfa ad una squadra che giocava un calcio rabbioso e pragmatico, oltre che efficace, ma che stava per entrare in un suo periodo storico in cui avrebbe piuttosto dovuto iniziare a sfruttare al massimo le validissime risorse tecniche, soprattutto dalla cintola in su, che stavano venendo allo scoperto. Senza contare che, numeri alla mano, ha fatto molto meglio di quanto il disastroso momento starebbe sottolineando: viaggia alla media del 60% di vittorie (Conte chiuse col 56%, Prandelli col 41%, Donadoni col 56%, il Lippi I col 58.6%) ed ha terminato il girone di qualificazione senza far peggio dei suoi predecessori.

E allora, cosa diavolo sta succedendo? Semplicemente, tutti stanno facendo male, dai calciatori in campo al CT, fino ad arrivare ai vertici federali che si sono inspiegabilmente affrettati a rinnovare il suo contratto fino al 2020. Un problema non da poco, se si considera che le risorse finanziarie della Federazione non sono quelle delle nuove proprietà esotiche del grande calcio, e che un duplice, milionario, contratto in essere non sarebbe sostenibile. Ergo, se Mondiale sarà, sarà con Ventura alla guida. E tutti noi dovremo fare il possibile e l'impossibile per sostenerlo. Nonostante gli ultimi sei mesi siano stati semplicemente rovinosi. Ma le colpe non possono essere tutte addebitate a Ventura, che è semplicemente andato in confusione. E questo è evidente, se ci si irrigidisce su un modulo sconosciuto a praticamente tutti i convocati, e ci si ostina a cercare di far fare ai propri ragazzi compiti e ruoli mai svolti. Quando poi, messi alle corde, si ritorna alla copertina di Linus che risponde al 3-5-2 di matrice estremamente contiana, e si riesce a schierare Insigne a centrocampo con compiti di ripiego difensivo, beh, allora è evidente che qualcosa non vada. Sobrietà e lungimiranza, questo è evidente, vorrebbe che si passasse immediatamente al 4-3-3. L'unico, tra i tanti moduli vagliati sinora, sostanzialmente mai utilizzato, che per qualcuno non ci sarebbe il tempo di plasmare addosso ai ragazzi. Tutte balle. La verità è che domani, a San Siro, sarà ancora 4-2-4 o 3-4-3 semplicemente perché Ventura sa di essere a fine corsa, e non vuole rinnegare le proprie convinzioni. E, dal suo personale punto di vista, probabilmente fa anche bene. In ogni caso sarà il campo a dirlo. Ed a prescindere dal modulo, dice bene Pochesci, sarebbero altre le determinanti. Perché il gap tecnico che separa Italia e Svezia, con qualsiasi modulo si vada in campo, è un solco infinito. E se i ragazzi in campo, ancora una volta, non saranno in grado di dimostrarlo, e di rimontare uno 0-1 in casa, allora sarà anche per colpa loro se non andremo al Mondiale. Perché se quel fenomeno che si chiama Verratti e per il quale il Barcellona sarebbe disposto a pagare anche 100 milioni non gioca una gara di livello in Nazionale da anni; e se Insigne, pur schierato costantemente fuori ruolo, si ostina a giocare da solo e senza cercare di replicare in Nazionale gli scambi che costantemente regala con la maglia del Napoli; e se Belotti e Immobile che di gol in campionato ne fanno a secchiate in azzurro riescono a far male solo a Liechtenstein, Israele, Macedonia e Albania; e se Buffon, Bonucci, Chiellini e Barzagli sono da pensionare dopo un ciclo italico in cui si sono resi protagonisti di cose eccelse; allora di non andare al Mondiale ce lo meritiamo davvero. 

E sarà, come sempre, un concorso di colpa. Da estirpare. Magari mediante la rivoluzione annunciata, a modo suo, nel sentito sfogo del tecnico della Ternana.

"Abbiamo perso contro una squadra di profughi"

"Ci siamo fatti pure menare"

"Ma che siamo diventati, tutti 'pariolini'?"

"Il calcio italiano è finito"

"Ecco cosa accade a portare tutti questi stranieri in Italia"

"Dove sono i difensori che marcano?"

"Una volta l'Italia menava e vinceva, adesso ci menano e piangiamo"

"Ma andassero a prendere gli italiani nei campionati inferiori e gli dessero l'opportunità della vita"

"E' una vergogna"

"Usciamo per paura. Siamo andati in Svezia avendo paura. Se vedo la mia squadra giocare con paura io me ne vado, perché avrei potuto trasmettergliela io"

"Dobbiamo cambiare le regole. Le primavere sono fatte tutte da stranieri".

Sono questi solo alcuni dei concetti che stiamo tutti ascoltando e riascoltando, in queste ore. E lo facciamo non solo perché viviamo nell'ambito di un calcio che vive di banalità, frasi fatte e stereotipi. Ma, soprattutto, perché siamo completamente disabituati a sentirci dire in faccia, e con veemenza - peraltro, romana, quindi ancor più efficace nel suo essere apparentemente greve - delle piccole verità. Se si estirpano le estremizzazioni, e i luoghi comuni, e si cerca di riportare il tutto sui binari della critica analitica, difatti, dalle sue parole vengono fuori solo brutte sensazioni che devono far riflettere. Oltre che un senso d'ansia diffuso - "Una cosa è certa: mo' questi ci fanno stare col pensiero fino a lunedì che usciamo dal Mondiale" - che, personalmente, mi dipinge a pennello. Il motivo è semplice: perché, come dice Pochesci, "Giornalisti, addetti ai lavori: se andiamo fuori dal Mondiale perdiamo tutti: se dovemo svejà".  

Sarà per questo motivo che l'Inno, che dovremo cantare mai così forte e sentito, domani sera, di cuore in cuore, dice anche "L'Italia s'è desta". Se lo sarà anche nei fatti, oltre che nelle parole, lo vedremo a breve. Anche perché l'alternativa rischia di essere il sonno più profondo. Quasi prossimo alla morte. A cui, però, non siamo ancora arrivati. Perché- e qui Pochesci sbaglia, e di grosso - il calcio italiano non è ancora morto. O, quanto meno, di questo sto cercando di convincermi, ora dopo ora che passa, e ci avvicina a quella che, ahinoi, rischia di essere la partita dell'estrema unzione.