Anche questa settimana, come già sperimentato con il Memento del 25 settembre 2016, proveremo a guardare il pallone attraverso gli occhi dei registi che in alcune scene dei loro film hanno deciso di rappresentare i sentimenti umani grazie al tramite dell’attrezzo più celebre della storia dello sport. Se alcuni hanno delineato i tratti intimi di chi vive la guerra, i soprusi e le invasioni, di chi, invece, anche in tempo di pace, deve affrontare forme di conflitti a cui quest’epoca stenta a riconoscere un qualche genere di dignità, altri maestri del cinema hanno voluto introdurre nelle vicende dei loro film la sostanza spirituale del recupero della vita, nei sui aspetti divisi tra la quotidianità dentro eventi straordinari e l’eccezionalità dell’imprevisto. In parole povere, la poesia del tangibile, delle fasi empiriche dell’esistenza, quelle che, di fatto, il calcio ripropone fuori e dentro il terreno di gioco.

Marrakech Express è il terzo film diretto da Gabriele Salvatores. La sua sceneggiatura è stata finalista al Premio Solinas, nel 1987. La pellicola del regista italiano racconta della vicenda di un gruppo di amici che parte alla volta del Marocco, per cercare di andare a tirare fuori dai guai Rudy, un amico che ha bisogno di soldi per risolvere un problema con la giustizia marocchina. Il viaggio educherà i suoi protagonisti al sapore della scoperta di una nuova identità collettiva, in cui, poco a poco, ognuno di loro capirà di non poter più vivere l’amicizia, i bei tempi andati, l’antica giovinezza, secondo regole che gli sono state sottratte dal tempo. Una partita di calcio giocata nel deserto restituirà al gruppo un momento di gioia e di conquista. Il recupero del tubo in cui sono nascosti i soldi per Rudy è il recupero della speranza e della fiducia, sulle note di una delle canzoni più celebri scritte nella musica leggera italiana, quella Leva calcistica del ’68, di Francesco De Gregori, che con le sue parole suggerisce gli elementi che fanno dell’uomo un vero uomo. E allora, il Marrakech Express di un gruppo scanzonato e malinconico di “vecchi” ragazzi si trasforma nel percorso che rappresenta una formula, quella per cui tutto un giorno dovrà fare i conti con i propri ricordi, i propri fallimenti e gli inganni più imprevisti.

La stessa scena del film di Salvatores viene riprodotta in versione parodistica in Tre uomini e una gamba di Aldo, Giovanni e Giacomo. Il viaggio dei protagonisti stavolta li mette davanti alla necessità di recuperare una scultura a forma di gamba, finita a fare da palo a un campetto di calcio improvvisato sopra una spiaggia. A differenza della scena ispiratrice, che in Marrakech Express vede il successo dei suoi calciatori, nel film dei comici italiani la partita decreta un altro tipo di risultato, ovvero un severo 10-3 per la squadra avversaria. Eppure, la sequenza che rievoca il film di Salvatores si riserva soltanto le prodezze degli sconfitti, con il sottofondo di un Vinicio Capossela a mo’ di motto passionale. Nel capovolgimento comico, di fatto, la sconfitta nella partita filtra soltanto le cose ben riuscite. Poche, ma ben riuscite. Della gamba, in fondo, poco importa. Che siano gli altri a godersi il trofeo della perfezione. Meglio il candore più umano che mai.

E allora, forse, vale la pena concludere con un’altra scena di un altro film di Gabriele Salvatores. Mediterraneo parla di guerra, ma lo fa in regime di pace. I soldati approdati su un’isola greca per sbaglio, durante la seconda guerra mondiale, cercano la loro dimensione in un luogo che li separa da quello che succede in un mondo distrutto dal conflitto. La loro guerra ha il volto di un piacevole e avventuroso senso della riscoperta, proprio come i viaggiatori di Marrakech. Stavolta, però, quei soldati buoni, incapaci di fare del male a qualcuno, vivono la loro rielaborazione interiore attraverso l’attesa di tornarci, in quel mondo che pare averli completamente dimenticati. L’atterraggio improvviso di un aereo pilotato da un aviatore italiano, durante una partita di calcio, interrompe l’esecuzione di un calcio di rigore. Un rigore mai calciato, come l'esito della guerra. Senza vinti né vincitori. E quel pallone, forse, è meglio che resti lì.