La storia del cinema è piena di colpi di scena riservati per i finali a sorpresa. Se il protocollo dei film non può fare a meno della rivelazione, della gloria conquistata all’ultimo istante, della tragedia che precede la parola fine o di qualsiasi altro evento che sorprenda più di quanto accaduto per tutta la durata della pellicola, il calcio prevede questa eventualità nella maniera più naturale possibile. Non ci sono forzature. Il finale può arrivare come non può arrivare. Le cose proseguono scontate o impreviste. Come la vita, senza certezze e, allo stesso tempo, col tedio, la sofferenza e la serenità del panta rei pallonaro. Regola rispettata da molti scrittori e registi che hanno raccontato le loro storie, o quelle degli altri. Regola utilizzata anche per descrizioni che non si verificano all’ultimo istante, ma che, per qualcuno, invece, valgono l’ultimo minuto.

L’amaro stratagemma lo realizza Marco Risi nel suo Fortapàsc, il film dedicato alla storia di Giancarlo Siani, giornalista napoletano assassinato dalla camorra all’età di 26 anni. La vicenda, all’interno del film, di tanto in tanto, si sviluppa attraverso un fondo narrativo legato al campionato di calcio 1984\85, quello dello storico scudetto del Verona, non senza qualche forzatura da parte della sceneggiatura, come, per esempio, nella scena dell’arresto di Valentino Gionta, che avviene mentre il boss di Torre Annunziata sta assistendo alle immagini dei festeggiamenti dello scudetto veronese. Il campionato 1984\85 ebbe fine in maggio, mentre Gionta fu arrestato in giugno, con conseguente articolo della discordia scritto da Siani e pubblicato il 10 giugno.

Un’altra forzatura, invece, il regista nato a Milano decide di applicarla al racconto della strage di Sant’Alessandro, avvenuta nell’agosto del 1984, quando, episodio celebre nella storia della criminalità organizzata, un commando, nascosto in un autobus turistico, eliminò molti uomini del clan Gionta, senza, però, riuscire a uccidere l’obiettivo principale, il numero uno della cosa egemone di Torre Annunziata. Ad aggiungere maggiore tristezza all’episodio fu il fatto che alcune delle vittime dell’agguato non erano legate ad ambienti criminali. La scena, che rievoca i fatti del 26 agosto 1984, scandendosi con il racconto radiofonico della partita Napoli-Verona, nella realtà giocata in inverno, nel film lascia intendere che la gara sia quindi disputata in estate. Si tratta del Napoli-Verona, conclusosi 0-0, che, archivi alla mano, ha visto Ameri e Bagnoli polemizzare in diretta nazionale sul commento tecnico della gara del San Paolo.

Nel film, diversamente dalla realtà, il Napoli vince la partita grazie a un goal di Maradona nei minuti finali (In realtà, il Napoli aveva battuto il Verona per 1-0 l’anno prima, grazie a un goal su rigore di Ferrario). Ed è proprio la rincorsa a quel goal che accompagna la fuga di uno dei protagonisti, Ciro, un giovane garzone di macelleria, che viene inseguito da uno dei sicari per i vicoli della cittadina del napoletano. Ecco che, scambiato per uno dei camorristi del clan Gionta, il giovane garzone cerca di sfuggire all’azione dei killer, mentre la radiocronaca della partita descrive quelle dei calciatori. Quando Ciro, ormai braccato, viene raggiunto dai colpi dei suoi esecutori, arriva la notizia del goal di Maradona, della rete messa a segno dal numero dieci appena sbarcato a Napoli, con la stessa maglia che indossa il giovane malcapitato, e che, dopo, fa da sudario al corpo senza vita del ragazzo fino all’arrivo delle forze dell’ordine. Quella numero dieci che sarà ricoperta dal lenzuolo bianco che ispira la scena più significativa di tutto il film. Un’istantanea che fotografa la potenza della morte e della brutalità, in mezzo al silenzio reale di tanta gente omertosa e soggiogata dal terrore delinquenziale e alle lacrime artificiali di chi inscena un dolore ad hoc, come una sorta di disperazione d’occasione. Poco prima, la corsa di Ciro, un garzone di macelleria costretto a vivere il suo ultimo minuto anzitempo. E come lui, ancora oggi, se ne contano tanti.