di Fabio Guzzo

 

 

Siamo vecchi, siamo arretrati culturalmente, poveri d’animo e di spirito e, come peculiarità nazionale, l’idioma non possiamo che rifletterlo nel calcio. È la nostra storia, la nostra vita, non possiamo farne a meno e fin qui non ci sarebbe neppure niente di male.

Il problema sorge quando timidamente proviamo ad ammettere la consapevolezza a noi stessi. È che ce ne vergogniamo, che sappiamo ciò ma teniamo a celarlo, non vogliamo crederci, e alla prima occasione buona accusiamo gli altri di ciò che pensiamo, fino a mettere nelle condizioni, alla prima opportunità, chi non vorremmo mai avere neppure seduto di fianco in aereo di dirci cos’è giusto e cos’è sbagliato, cosa si può e cosa non si può dire.

In FIGC, organo diretto e coordinato da Carlo Tavecchio (perché Albertini rimane un uomo dalla cultura congenita di un calciatore, remember 11 agosto 2014), quindi, si può parlare senza peli sulla lingua di omosessuali -“Non ho niente contro gli omosessuali ma teneteli lontani da me”-, di donne e sport -“donne handicappate rispetto agli uomini”-, e infine, o meglio all’inizio per chiarire subito ogni dubbio, dell’“Optì Pobà che mangiava le banane in Africa e poi viene a giocare in Serie A togliendo il posto agli italiani”. Bingo (bongo)! Noi possiamo indignarci in pubblico e ammettere, al contempo, al vicino di curva che in fondo il tizio abbia ragione, che (nuove frontiere del luogo comune) -tutti lo pensiamo ma nessuno lo dice, ne ha avuto il coraggio di affermarlo pubblicamente- e come contraddire cotanta saggezza?

 

L’Italia è maledettamente in ritardo nel quadro evoluzionistico culturale sociale; è in ritardo come in tutto del resto, da circa quarant’anni a questa parte, ovvero da quando chi oggi insegna ha iniziato a depauperare ogni risorsa materiale e intellettuale a sua disposizione con l’arroganza di chi può, di chi è in grado di giudicare e sentenziare, mai in grado di considerare se stesso come la peggiore generazione di sempre da quando esiste il concetto di nazione quattro volte campione del mondo, per rimanere in tema. Una nazione che non concepisce le unioni omosessuali o di fatto, una nazione che non distingue una droga che potrebbe bloccare l’apparato nervoso di un soggetto a pochi secondi dall’assunzione o dopo duecento anni di continua somministrazione, una nazione che non può sopportare che il mestiere più vecchio e praticato della storia venga regolamentato, perché negli anni ’60 non funzionava […], una nazione che ripudia -spesso- la chiesa, ma ne fa egida di decisioni a Lei favorevoli. Una nazione razzista più di molte altre con un razzismo settorializzato, regioni a emissioni zero, altre molto meno evolute.

 

La macchia internazionale nel contesto calcistico di Marco André Zoro, che blocca la palla a metà campo e viene costretto al meno peggio da un quasi nero come Adriano, fa male e per anni e anni è simbolica di calcio, razzismo e Italia, ma quando il sipario inizia a calare serve qualcos’altro che smuova le anime e dia una visione nuova, fresca, giovane, sufficientemente pulita e anticonformista al punto giusto. Serve Mario Balotelli!

 

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Tentativi pre e post vi sono stati e vi saranno con: Jidayi, Gomis, Okaka, Manfredini, Liverani, Oshadogan, Ferrari, Santacroce, Ogbonna e molti altri; tutta gente capace e dedita al mestiere di calciatore che non deve (mai! E perdonateci per questa -ultima- generalizzazione) essere giudicata per qualcosa che vada oltre ciò che universalmente è considerato lecito, ma l’occasione col Marione internazionale era troppo ghiotta per ridurla al solo sfortunato che spacca mondo, sogni, ambizioni e pregiudizi, soprattutto quest’ultimi, con solo spirito di sacrificio e quel dono che il Dio pallone gl’ha donato.

Un segno di riscatto, un vanto internazionale, uno stendardo da portare fieri ed esibire all’occorrenza. Guardate com’è bella e giusta l’Italia, anche noi sappiamo fare ciò che ci accusate di non saper compiere, anche noi siamo mentalmente aperti e soprattutto prodighi quando si parla di diritti e possibilità. Noi siamo l’Italia, non quei paesi da (ex) tubo catodico che negano la metro ai neri! E ciò che avete visto fino ad oggi è solo un incredibile malinteso.

 

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È razzismo al contrario, ma pur sempre razzismo! È l’ostentazione continua che ricerca il proficuo e il merito di chi è sfortunato e lotta contro tutto e tutti pur di imporsi in un sistema malato. Ci hanno fatto credere -era solo colpa nostra-, non volevamo creder loro, ci siamo immedesimati, commossi e questo ci ha portato a giustificare l’ingiustificabile, ad anteporre attenuanti che mai a nessun altro avremmo concesso; e quando in noi svaniva per un solo istante il sentimento giustificatorio, ci pensava Lui a riportarci sulla (per nulla) retta via:

 

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No, non è così. È una contraddizione non un malinteso e, all’ombra di quelle che sono ormai ventisei primavere per il soggetto in questione, ne abbiamo avuto consacrata prova. Avete fallito e non potete più rimediare. Gli abbiamo perdonato tutto e sarebbe tanto ridondante quanto superfluo elencare qui ciò che è accaduto (e non) negli anni, dalle freccette lanciate ai juniores che si allenano, alla maglia gettata in terra dopo i rimproveri dell’allenatore o le espulsioni lampo quando necessitava solo l’ovvio in mezzo al campo.

 

 

Ci aveva visto giusto forse Adel Taarabt, il marocchino classe '89, in orbita di uno dei peggiori Milan dell'ultimo trentennio, che senza giri di parole si lasciava andare a dichiarazioni tutt’altro che fraintendibili: "Balotelli? Tutti mi dicevano che era fortissimo, io ci ho giocato e posso dire che è forte, ma non mi è parso un giocatore di classe mondiale. È un giocatore normale, non un fenomeno, è uno che tira forte ma non gioca per la squadra, oppure se lo fa come adesso a Liverpool poi non segna. Ha avuto tante chance, dal City al Milan, e le ha sprecate".

 

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Io Mario Balotelli l’ho visto giocare e fin lì penso che non fossimo in pochi. Ma non in molti, di certo una bassissima percentuale dei quasi quattro milioni di follower che ha su twitter, lo hanno osservato da vicino quando entra in campo nel pre-gara, quando si riscalda a pochi metri dal primo anello blu di San Siro, quando la curva omaggia con un coro lui e la squadra e gli unici occhi che seguono l’applauso di ringraziamento sono i suoi. Occhi e sguardo che paiono di beffa, di rivincita, di riscatto. Da cosa però non ci è dato saperlo. È una sfida continua, una necessità insita nel suo animo di avere sempre qualcuno con cui prendersela e quando le munizioni iniziano a mancare, o meglio il fuoco nemico è troppo forte da contrastare, ecco che ordinario spunta l’apporto antirazzista. Un contributo consueto e comodo all’Italia pallonara quanto a lui.

 

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La fortuna di Mario Balotelli risiede tutta in questo tiepido concetto. Un calciatore nero di colore della pelle capitato nel sistema culturale sportivo più arretrato tra i Paesi in via di sviluppo integrato. Un nero col tiro forte e la capacità, incondizionata e continua, di passare da carnefice a vittima in un batter d’occhio, con un’attitudine innata a battere i rigori e dividere il Paese concedendo attenuanti ai razzisti e occasioni di riscatto su commissione. La sua fortuna termina quando diviene flebile l’accanimento mediatico e non viceversa. I media gli donano uno stipendio fuori da ogni logica di sport ma solo di spettacolo, sponsor, club di caratura internazionale e competizioni mondiali. Il campo, al contrario, lo spinge in fondo al circus sportivo con la sfiducia dei tecnici che l’hanno allenato e l’odio represso di ogni suo ex tifoso che si somma a quello di chi nella propria squadra non vorrebbe mai vederlo indossare la maglia.

 

Semanticamente, ma neanche troppo, Mario Balotelli si è pensato potesse stare al calcio come Tyrone Curtis "Muggsy" Bogues alla NBA ma chi ha voluto ciò ha meramente fallito. Un nero italiano era un concetto troppo avveniristico per non essere dissanguato fino alla sua ultima goccia. Non c’è giustizia o spirito di sacrificio ripagati, non c’è il riscatto sociale e morale. Non c’è lieto fine in questa storia e almeno, per adesso, è certo non ve ne sarà. Un ex giocatore di ventisei anni, non si sa quanto volontariamente è riuscito nell’impresa di dissacrare i programmi di chi ha creduto in lui come figura simbolo di un’epoca che non v’è più e al contempo di chi aveva riposto in lui sogni e idee. Il miracolo italiano non è ancora finito. C’è speranza finché risiede in ognuno dei nostri animi. Mario Balotelli ha l’ultima, ma questa volta per davvero, occasione della sua vita. Al termine della stessa, avremo capito davvero se, con immenso piacere, noi sognatori ci fossimo sbagliati, o se lui ha voluto scherzare con la vita. In un solo caso ha vinto, ma decidere in quale dei due è un discorso molto soggettivo e strettamente collegato al concetto di moralità insita in ogni singolo spirito umano. Non è detto che il vostro sia uguale al suo.

 

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