Il capo chino verso gli spogliatoi incurante pure del saluto rituale a Guardiola, l’imbarazzo di Zola che con gli occhi alti e piegati pare quasi scusarsi con l’allenatore spagnolo, il suo attaccante con cui si sono fatti grandi a vicenda che chiede all’arbitro di fischiare al più presto la fine della partita perché non ne può più, i malumori dei suoi nuovi tifosi, le prese in giro di vecchi avversari e il non si aspettava altro che questo per dire che non sarebbe stato adatto ad allenare una squadra che non fosse quel Napoli che tanto lo aveva seguito nella sua parabola di predicatore del calcio raffinato e spettacolare.

Tutto Sarri in un momento. Non dei migliori. Nonostante il Chelsea, nonostante una panchina che fino a qualche anno fa sarebbe stata impensabile. Nonostante il desiderio esaudito espresso pochi mesi prima di lasciare Napoli: “Ho deciso che è arrivato anche per me il momento di arricchirmi col calcio”.

E pensare che fino a qualche tempo fa il suo arrivo a Londra era stato accolto come una benedizione. L’11 novembre il suo Chelsea aveva fatto registrare la sequenza record del club londinese di 12 partite consecutive senza perderne nessuna dalla prima di campionato. La Premier gli si era cucita subito addosso, o, forse, era stato bravo a cucirsela lui, piazzando il suo fiduciario di gioco, Jorginho, in mezzo a quella musica che tanto avrebbe voluto suonare all’Inghilterra meglio di quanto fatto in quella Serie A che lo aveva sempre un po’ ammirato e un po’ maltrattato. Ostile a quello juventinismo pragmatico e snob, arrogante e fazioso, Sarri ha in qualche frangente preso le sembianze del “nemico”, sfoggiandosi spigoloso e indolente pure lui. Forse pure quando non sarebbe stato così necessario, porgendo il fianco a chi desiderava da tempo di deriderlo, tornando a definirlo nuovamente un allenatore bello e perdente.

Eppure, nelle prime 12 partite di Premier il suo Chelsea aveva dato l’impressione di una macchina quasi perfetta, rodabile solo verso nuove e performanti soluzioni, invece che vittima di un’improvvisa e deludente involuzione. Dalla lotta al titolo al rischio di non qualificarsi in Champions, in quel febbraio che già a Napoli, in passato, gli aveva riservato delusioni e brutte sorprese. Dal 24 novembre 2018, dalla gara con il Tottenham, il Chelsea ha dovuto incassare ben 6 sconfitte su 14 partite. Da una media di 2,3 punti a partita nelle prime 12 a una di 1,7 su 14 gare. Un dimezzamento di rendimento che probabilmente ha tante ragioni. O, se ne ha poche, quelle poche pesano in una misura che nemmeno l’abilità di un tattico così creativo riesce a leggere con lucidità. 

12 goal subiti nelle ultime 3 trasferte senza segnarne neanche uno è uno score che nella Londra aristocratica dei blues può far soltanto storcere il naso. Ci sono club che non hanno un buon rapporto con la parola pazienza. Ce ne sono alcuni che vantano il diritto allo scarso gradimento pure nei confronti di chi regala successi e trofei, figuriamoci a chi non riesce nemmeno a raggiungere gli obiettivi di base. Da certe parti l’ingratitudine coincide con il cinismo aziendale di macchine che non possono permettersi il lusso di fallire, ancor meno di rendersi ridicole subendo mortificazioni sportive come quella patita dal Chelsea per mano del Manchester City.

Il Jorginho arginato, chiuso nella gabbia che in Inghilterra ormai diverse squadre gli hanno costruito intorno, e l’Higuain ritrovato, dopo il giro di maglie che la guardia partenopea avrebbero scongiurato volentieri, non sembrano essere bastati per accennare a quell’idea di gioco che la Treccani ha linguisticamente battezzato sotto il nome di Sarrismo. Forse aveva avuto ragione Rafa Benitez quando, in un’intervista rilasciata in tempi non sospetti, alla domanda sull’idea Sarri nella Premier League il tecnico spagnolo aveva fatto notare che certe filosofie di gioco in un campionato come quello inglese possono essere pericolose. La Premier è un torneo che condiziona, ma che non vuole essere condizionato. Non ha perduto la sua vena rugbistica, col fiore di loto che mai deve smarrire che la sua origine si fonda nel fango. 

Brian Clough impiegò tanto tempo per imporre il suo intendimento del futbol giocato e ragionato sull’identità rude e pragmatica di quello che gli inglesi non amano venga chiamato soccer. L’Inghilterra ha poco a poco educato il suo calcio di club ai domini delle aristocrazie finanziarie e alle pretese televisive. Ha fatto di se stessa una leadership europea, un’America del calcio. Uno come Sarri, romantico e integralista, fino a rischiare l’insopportabilità di se stesso, quanti rischi correrebbe in un calcio simile? Forse pure troppo avanti negli anni per cambiare, per adeguarsi caratterialmente, per saper esprimere con ruffianeria quell’ammirazione che si porta dentro rivolta a un mondo di grandi dove perdurarvi è un’ardua impresa.