Una delle tante leggende - ma fino a un certo punto, perché diversi dati in verità ne fanno anche una realtà storica - sul Grande Torino narra di un momento tanto ricorrente, quanto dirompente, legato alla storia sportiva di quella squadra. 

A posteriori, anche epocale: si riferisce al preciso istante cui due precisi eventi prendevano spunto e e si davano forza l'un l'altro. 

Dagli spalti del Filadelfia, durante una situazione di svantaggio, l'urlo di una tromba dava il via alla rimonta. Era quella, proverbiale, di Oreste Bolmida, uno dei più noti sostenitori granata, oltre che un rinomato trombettista della curva. I suoi soffi nel bocchino diventavano prima ronzio e poi urlo e richiamo. 

Anche per il capitano, Valentino Mazzola, papà di Sandrino, che si rimboccava su le maniche della casacca decenni prima di Mark Lenders (e con un po' più di stile), incitava i suoi, e dava il via alla carica. 

La carica del Toro, mica di una squadra qualunque. Che riusciva a mettere sotto gli avversari, recuperare la partita e, spesso, anche a dilagare. 15 minuti di fuoco e fiamme, in cui il boato dei tifosi sosteneva la massiva dimostrazione di forza di quella che, prima dello schianto, era la formazione più forte del globo. 

Ma che, talvolta, ci metteva un po' per dimostrarlo. Almeno fino al momento dell'attesissimo "quarto d'ora granata".

Era, quella, la massima e prima espressione di quello che poi prese il nome di "tremendismo" granata. Un vocabolo coniato direttamente dall'universo pallonaro, importato dal Sudamerica, ed autoriferito. Quella che oggi, in qualche misura, sarebbe la "garra charrùa" che spopola impunemente, talvolta inopportunamente, e impropriamente, sul web, e che all'epoca era unica e inimitabile. Anche perchè, ovviamente, riferita e riferibile solo al Toro, prima degli anni '40 e poi, forse ancora più correttamente, a quello dei '70.

Quello di Pulici, Graziani, e della Diga, Ferrini, che più di ogni altra era «una squadra di orgoglio, di rabbie leali, di capacità aggressive, mai vinta, temibile in ogni occasione e soprattutto quando l’avversario è di rango»

Perché, spiegò sempre Giovanni Arpino, il tremendismo è proprio del «club che magari non vince grappoli di trofei, ma costituisce osso durissimo per chiunque». La perfetta descrizione di quello che era il Torino di ieri. Talvolta, anche di oggi. E, probabilmente, anche di domani.

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Di certo lo è stato quello di ieri. Fuori casa, nel derby, la squadra di Mazzarri non ha tirato fuori né il suo quarto d'ora, e solo a sprazzi il tremendismo, ma ha comunque fatto bellissima figura. E, per pochissimo, non è riuscita a portare a casa una partita fondamentale, e che, per buona parte, avrebbe anche meritato.

Il tremendista per definizione, nel venerdi sera pallonaro italiano, è stato Saša Lukic. Giovane e arrembante, tanto tatticamente disciplinato, quanto corsaro nel pressing e nel testadurismo, tanto per coniarne uno nuovo, di termine. Chiedere, per conferma, a un baronetto del possesso palla come Miralem Pjanic: mediano bosniaco contro mediano serbo, in una rincorsa di qualche metro in cui l'imprevedibile è diventato imprevisto, e durante il quale il compianto Arpino avrebbe visto carnificata quella sua luminosa descrizione.

Poi, certo, è arrivato il gol, il solito gol, di testa, di Ronaldo. Un must stagionale, che non sorprende, ma che ha prodotto una reazione troppo timida da parte dei ragazzi di Mazzarri. 

Che, no, del quarto d'ora granata non hanno preso alcuno spunto. 

Ma d'altro canto non è certo questa la natura del Torino del 2019. Una creatura tipicamente mazzarriana, che fonda tutti i suoi successi sulle ripartenze veloci, sulla tenuta nervosa, sulla solidità mentale. Ed, ovviamente, su una difesa di ferro. La terza migliore d'Italia, dietro quella dell'Inter e della stessa Juventus, che però è costata 5 volte tanto

Già. Perché l'intero pacchetto composto da Sirigu (arrivato a zero), Izzo (10 milioni), Nkolou (4), Djidji (prestito con diritto di riscatto a 7), Ansaldi (4) e De Silvestri (3.5) equivale, in pratica, al cartellino del solo Alex Sandro (26). E oggi fa paura per come si muove, coordinatamente e singolarmente, e per come riesce (indirettamente) a tramutare in oro ognuno dei pochi gol che attaccanti e centrocampisti riescono a realizzare. Già, perchè ben 12 squadre di A segnano più del Toro: un dato che vale poco, se gol agli avversari non ne concedi. 

Non so se questo possa bastare per far divenire realtà un sogno chiamato Champions, e personalmente ritengo che, a meritarlo, per motivi di campo, sia piuttosto l'Atalanta. Quello che so è che di certo questi ragazzi, che non conoscono i quarti d'ora granata (anzi, spesso nel finale subiscono quelli degli avversari), e che solo a sprazzi mettono in campo il loro tremendismo, in Europa dovrebbero andarci eccome. Sarà, semmai, l'Europa League a vedere nuovamente protagonisti el General e i suoi scudieri. 

Sarebbe un vero peccato, in effetti, non vedere premiati gli sforzi di un gruppo che è maturato nel tempo, mostrando di recepire alla perfezione i dettami di Mazzarri e di incarnare lo spirito che quella maglia trasmette loro. Ovviamente, fatte le debite proporzioni, non sarà il Grande Torino, ma è comunque un grande Torino. Trascinato dal cuore infinito di un altro capitano, che non sarà Mazzola ma del suo predecessore di certo ha imparato una cosa: a tirarsi su le maniche, fosse anche solo metaforicamente. 

Nessuno, e ripeto, nessuno, dei centravanti attualmente militanti in Italia aiuta i compagni, corre a perdifiato, in tutte le zone del campo, e sempre con la medesima intensità, più del Gallo Belotti. Che non sarà più il goleador di due anni fa, ma che più d'ogni altro è un esempio. Di fede, di professionalità, e di dedizione. 

Capitani coraggiosi, seppur non tremendisti. Ma figli, sempre e comunque, di una fede. Tanto granata, quanto infinita.

Da Superga a Meroni a Ferrini, la storia del Toro obbedisce a un copione drammatico. Di rappresentazione in rappresentazione, società tifosi, giocatori si sono cuciti addosso una divisa mentale ormai indelebile come la maglia granata: è più importante soffrire che non vincere.

 (Giovanni Arpino)