I re non si ribellano. Semmai, è ai re che ci si ribella. Il post conferenza stampa di Totti intorno al suo saluto alla Roma ha indotto qualcuno a definire la sua scelta come la ribellione del “re di Roma”. Ma, in fondo, Quando eravamo re resta un film documentario di successo di Leon Gast sopra i pugni di Alì-Cassius Clay e dentro la sua lotta per il riscatto morale e civile di quella parte dell’uomo discriminata a causa del colore della pelle.

La scomodità di certi numeri 10

In Italia, già in passato, il sistema politico del calcio aveva provveduto a indurre Roberto Baggio a rassegnare le dimissioni da un importante, almeno sulla carta, incarico dirigenziale nel settore tecnico e giovanile della nazionale. Eppure, la Federazione aveva addirittura relegato il numero dieci più autorevole degli ultimi trent’anni a ore e ore di anticamera, conducendo il suo entusiasmo a una resa dovuta all’amara constatazione che quell’incarico gli era stato affidato per ragioni probabilmente lontane dalla sua teorica e importante utilità. Il "Divin Codino", così, messo alle strette da un “taedium operandi” relegato al rango di una noiosa e afflitta contemplazione di un lavoro e di uno sviluppo di una parte del calcio italiano che non era di certo quello desiderato.

“I ribelli muoiono giovani”. Lo dice Nino Manfredi nei panni di Colombo da Priverno ne Il nome del papa re. E morire non vuol dire sempre finire la vita. Ci sono altre cose che in vita mettono la parola fine a un modo di essere, di impiegarsi, agli entusiasmi, ai lanciatori di giavellotto, così chiamati, come in un romanzo di Paolo Volponi, perché lanciatori di se stessi. Per una volta, almeno quello, un uomo di calcio ha parlato del suo mondo senza il politichese che troppe volte vieta la verità a chi a quel mondo vuole bene. E, ovviamente non può essere trascurato, qui si parla di una verità, non della verità. Tuttavia, Francesco Totti nel suo sfogo dimissionario ha lasciato chiaramente intendere quello che poco a poco ha alimentato “a certain disgust of working”, diciamo così.

Senza voler, e potere, stabilire da quali parti stia più torto o ragione, è sembrato, però, che Totti sia stato più abile dal punto di vista della comunicazione (probabilmente perché aveva realmente qualcosa da comunicare), tramutando in fragore tutto quel tempo trascorso in silenzio. In accumulo.

“Quando dicevo che la Juve avrebbe vinto lo scudetto già a gennaio e la Roma non sarebbe andata oltre il quarto posto, mi criticavano perché toglievo i sogni alle persone”

Getty images, Fantagazzetta

+

Una confessione che fa il paio con quella di Mauro Baldissoni nel giorno successivo: “La competizione con la Juventus resta quasi impossibile, perché è una società che ha quasi il doppio del nostro fatturato”. Sia pur essa accompagnata dall’ammonimento secondo cui Pallotta è arrivato a Roma con l’intenzione di vincere qualcosa di importante. A Totti, forse, l’inchino a questo strano percorso intrapreso dal calcio italiano non va giù. L’ossequio arrendevole e incondizionato a una forza lo infastidisce. Come infastidirebbe chiunque abituato a darsi con ardore ai massimi livelli in un calcio che è stato sempre caratterizzato da nobiltà e aristocrazie, tramutatesi in potenti borghesie con l’avvento delle televisioni.

La reazione dell’ex numero dieci giallorosso, evidentemente maturata alla luce (e al buio) di un lungo periodo, trova sfogo anche nelle parole del numero due della Roma: “Un conto è essere una bandiera, un altro è diventare qualcos’altro. Ci vuole tempo e certi ruoli non possono essere esercitati dall’oggi al domani. In una società di calcio, come in ogni azienda, le decisioni non posso essere prese da soli, ma è necessario confrontarsi con chi fa parte del gruppo”.  

Getty images, Fantagazzetta

+

Fuori i romani dalla Roma?

Francesco Totti non ne ha fatto un mistero. Secondo lui, la proprietà ha voluto che piano piano venissero allontanate le figure carismatiche della Roma che per tradizione aveva spesso fondato le sue epoche su personaggi destinati a diventare bandiere immortali. Spesso romani, altre volte anche non capitolini. Da Di Bartolomei a Totti, solo per citare l’ultimo trentennio. Che l’allontanamento, non sappiamo se realmente intenzionale, sottolineato da Totti non si metta in scia al processo anti identitario che il calcio ha iniziato da molto tempo? Tranne che per la Juve, quasi tutte le proprietà dei club più prestigiosi sono estere o, comunque, slegate da vincoli dinastici o territoriali. 

Allora, in un industrial futbol così feroce, ogni presenza carismatica, consolidata e influente può diventare ingombrante. Ovviamente, è importante ribadirlo, senza con questo santificare o demonizzare qualcuno. Le matasse spesso sono ingarbugliate perché sono in troppi pure quelli che cercano di sbrogliarle. Resta, comunque, che in questo calcio l’unica cosa che resiste ai tempi è una certa maniera di esercitare il potere. E, questo, non dipende da quanto tempo ci si è stati dentro a ottenerlo o a desiderarlo.