Quello che è accaduto nel dopo Napoli-Salisburgo sfiora il senza precedenti. Al di là dei fatti del 1988, che in quell’annata, ancora oggi parzialmente irrisolta, puntò il Napoli contro l’allenatore e contro alcuni capri espiatori. Situazione, allora, altrettanto grave, ma sostanzialmente diversa.

Il mancato rispetto del ritiro voluto da De Laurentiis non può essere la reazione a qualcosa determinato dal ritiro stesso. Qualcosa di più antico ha soltanto aspettato il pretesto per esplodere e presentarsi con tutto il suo imbarazzo. Sarebbe ingiusto e avventato, nonché presuntuoso, fare irruzione nella camera caritatis di questo Napoli sentenziando su quello che difficilmente verrà fuori con completezza. Il calcio, specie a questi livelli, si sa, non può permettersi troppe verità. Restano dubbi e perplessità. A chi ci tiene davvero, bisogna ammetterlo, anche molto scoramento.

Una cosa si percepisce, invece, con fastidiosa e amara insistenza. Erroneamente? Difficile dirlo. Tuttavia, questa cosa c’è, spinge da dentro e suggerisce pensieri avversi e rievocativi. Non retropensieri, attenzione. Soltanto l’incondizionata (o condizionata?) necessità di voltarsi un momento alle spalle, recuperando un filo di Arianna ancora perduto dentro un labirinto da cui sembra sia ancora complicato uscire definitivamente.

Bisogna tornare a due stagioni fa, a quel patto dello spogliatoio che i calciatori del Napoli strinsero con Sarri per cercare di portare lo scudetto a Napoli. Contro tutti. Contro le critiche, le perplessità e, chi ha memoria lo ricorderà, pure contro la loro stessa società. Sì, perché in quel periodo i rapporti tra la presidenza e l’allenatore si erano già irrimediabilmente compromessi. Il dopo Madrid dell’annata precedente aveva dato il là a una lunga querelle fatta di segnali e di contrasti. Un codice morse a cui, probabilmente, avevano preso parte anche gran parte dei calciatori e della tifoseria, in quel periodo e fino alla fine del campionato, in larga misura schierata coi moti rivoluzionari del sarrismo. Quel sogno, al di là del suo epilogo, è rimasto dentro la testa dei calciatori e dei tifosi. Un grande nodo si è stretto con tutto il suo ingombro nella psicologia del senato napoletano interno allo spogliatoio e in quella di molti sostenitori.

La chiamata di Ancelotti, il tentativo di ridare nuovo entusiasmo alla piazza da parte della società e la forza di una nuova ventata di rinnovo non sono servite. Del resto, sarebbe stato troppo difficile riuscirci. Quasi impossibile far salire un ammiraglio sopra una nave fino a quel momento governata da un pirata. Almeno, a dirla tutta, il pirata si era spacciato per tale fin quando gli era convenuto.

Incompatibilità e incomprensioni tecniche e tattiche, qualche voce di mercato e qualche malumore di troppo, col condimento di una difettosa comunicazione da parte della società, hanno poco a poco violato gli equilibri di un equipaggio ancora legato a certe tensioni. Non a caso, dopo la sfortunata eliminazione nel girone di Champions, il Napoli non è stato più lo stesso. Poco a poco, un lento e sofferto processo di disfacimento ha corroso quell’entusiasmo troppo forte e radicato, violento, che si era venuto a creare negli anni precedenti. E, parentesi importante, sta qui la grande responsabilità di chi ha adottato certe sensibilità collettive per farsi capopopolo di una rivoluzione d’occasione.

Albiol, complice un infortunio, ha praticamente lasciato Napoli già dalla fine del girone di andata dello scorso anno. Hamsik è andato via a gennaio, mentre Koulibaly e Allan, soprattutto quest’ultimo, dalle voci di mercato di inizio 2019 non si sono più restituiti alla squadra con il livello di rendimento a cui avevano abituato. Allan non è Allan da undici mesi. Koulibaly dalla Coppa d’Africa non è più tornato. Il suo rendimento sta registrando errori e ingenuità determinanti in quasi tutte le partite fino a questo momento disputate. Poi, i problemi legati ai rinnovi contrattuali di alcuni calciatori, una serie dei soliti difetti nelle strategie di comunicazione e alcune uscite infelici hanno fatto il resto, acuendo la pressione del dissidio. Ovviamente, trasformando in incudine tra due martelli un Ancelotti che sarà stato causa di incompatibilità tecniche, ma che, sul piano umano, fino a questo momento, nei confronti del Napoli e di Napoli ha saputo agire tanto con affetto e rispetto, quanto con l’accortezza di chi sa che l’appartenenza non è una cosa che si può sbandierare con disinvoltura. Vedere qualche suo predecessore.

La filiazione della gestione precedente si è trasformata in un germe invisibile che ha inevitabilmente manomesso il sogno invece di rinnovarlo, generando un effetto velenoso nei confronti di alcuni di quelli che avrebbero dovuto e potuto reinterpretarlo. Il peggiore dei motti di spirito si è impadronito della psicologia della squadra e della piazza, perché ha alimentato un conflitto anziché risolverlo.

È chiaro che tutto questo si regge sul piano delle percezioni. La realtà deve fare i conti con se stessa. Se De Laurentiis sia stanco del calcio a Napoli, se la soluzione davanti a una spaccatura così particolare oscilla tra l’allontanamento dell’allenatore o di quello di un bel po’ di calciatori o qualsiasi altra diagnosi e soluzione, nessuno può dirlo con certezza dei fatti. Né si può pretendere di imporre un qualche genere di lettura. Resta quella malinconia che sta governando una stagione ancora all’inizio, con un campionato all’undicesima giornata, l’ingresso agli ottavi di Champions a portata di mano e la Coppa Italia non ancora iniziata. Sarebbe uno spreco senza precedenti buttare al vento quello che ancora ha tutto da dire. Il Napoli agli ottavi di Champions ci è approdato soltanto tre volte nella sua storia e, con il passaggio del girone che sembra molto vicino, fermarsi per piangersi addosso e fare i bagagli avrebbe dell’autodistruzione professionale, nonché della mortificazione a un’intera tifoseria. Senza, con questo, volersi introdurre con prosopopea.

A proposito dei tifosi, la stessa atmosfera della curva B durante la gara col Salisburgo ha certificato quel grado di malinconia, per cause non imputabili attraverso la solita norma che inquadra troppo sbrigativamente gli ultrà in qualcosa da alienare dalla nomenclatura della cultura calcistica. Il comunicato diffuso dagli ultrà della curva B si basa sul disagio causato da provvedimenti punitivi che sembrano rivolti allo scoraggiamento del tifo organizzato. Così, oltre che prestarsi all’uso cosmetico di sanzioni che allo stadio stanno sottraendo il suo antico spettacolo a favore di un ordine televisivo e ipocrita, si colpisce anche l’elemento che maggiormente si lega al fenomeno calcistico, soprattutto se considerato dal punto di vista del suo valore popolare.

Lo stadio è luogo del folclore e di una rappresentazione di un’identità che in alcune città e per alcuni tifosi è ragione di appartenenza. Questo segno ha determinato le sue forme anche grazie alla storia del tifo organizzato. Piaccia o meno, è così. Un segno popolare che non può essere cancellato mirando alla metamorfosi della curva in una tribuna. Ogni tifoso che conosce bene il calcio sa che quel legame emotivo tra la squadra e le curve si percepisce pure sul terreno di gioco. E, passi pure come una provocazione simbolica, lo “spegnimento” della curva pare stia coincidendo con quello dell’entusiasmo di un ambiente svuotato di qualcosa di troppo. Oggi più che mai il Napoli sta mettendo a rischio il verbo credere.