“Che cos'è il tifo? E' una sorta di fede laica, è il bisogno di schierarsi a favore di un partito, simbolizzato da immagini, da un colore, ma che si pretende essere sostenuto da una tradizione e da una cultura diverse da quelle degli altri: il tifo nasce da un bisogno forse infantile ma pur sempre umano di identificarsi in un gruppo che ha come fine la lotta per la vittoria contro altri gruppi. Questo desiderio primario può essere contenuto in una rivalità sportiva o sconfinare nel fanatismo, ma questo penso sia una problema che in parte deriva dal carattere dei singoli, in parte dall'educazione che i singoli ricevono dalla società. Voglio dire che un individuo facilmente influenzabile, a cui la società insegna continuamente che la vita è soltanto una lotta a coltello per la sopravvivenza, facilmente diventerà un fanatico e nel momento in cui ipotizzerà la sconfitta della propria squadra in cui si identifica per un bisogno di protezione, considererà tale sconfitta, sia prima che la sconfitta si verifichi, per scongiurarli, sia dopo che s'è verificata, per vendicarsi. Il fattore fanatismo, anche questo deriva dai pessimi esercizi e dai cattivi insegnamenti degli oligarchi e della civiltà” dei consumi."

Dai diari di Fabrizio De André (Il grifone fragile, Tonino Cagnucci, Limina, 2013)

Lo scritto riportato nel libro di Cagnucci basta a De André per riassumere i significati e le dignità relative a chi vive il calcio come una vita ulteriore, assorbito in quel profano che si fonda su passioni e dipendenze, a loro volta messe a frutto da chi invece ne sfrutta gli aspetti più speculativi. E non sarebbe stato altrimenti per l’autore dell’amore sacro e l’amor profano, dentro la Genova di quella Liguria divisa tra la sua identità e l’appartenenza al regno di Piemonte e Sardegna. Quel Piemonte che in De André aveva fatto capolino sia per le sue origini familiari, ma pure grazie al calcio, considerando che, stando a quanto raccontato una volta proprio da Faber, erano stati il padre Giuseppe e il fratello Mauro ad accompagnarlo per la sua prima volta allo stadio Marassi in occasione di un Genoa-Torino, essendo padre e fratello entrambi torinisti. “Mi ricordo che quasi subito, forse per una sorta di antagonismo precoce, mi scoprii genoano contro mio padre e mio fratello”. Aveva reagito così, abbracciando nuovamente Genova a dispetto dell’ordine familiare, un po’ come sarebbe avvenuto anche successivamente, ogni volta che De André aveva bisogno di rifuggire da qualcosa o da qualcuno. Come poi sarebbe avvenuto per la sua Sardegna, l’altra terra, che invece gli avrebbe fatto visita ospitandolo, tradendolo (in Sardegna De André ha vissuto la drammatica esperienza del suo sequestro) e conquistandolo col rigore che soltanto la corda intrecciata con la bellezza e il pericolo sa tendere.

E, a proposito di calcio e di Sardegna, De André nel suo mondo del pallone, così intimamente alimentato da un amore a tratti silenzioso, aveva conosciuto Gigi Riva, l’eroe “cagliaritano” che proprio alla Sardegna, con la maglia del Cagliari, aveva regalato l’unico scudetto della sua storia. A distanza di tempo Riva ha raccontato alcuni momenti di quell’amicizia nata in maniera timida e fugace: “Cominciarono a saltare fuori ricordi di uno e dell’altro. Mi parlò della sua amicizia con Tenco e di ‘Preghiera in gennaio’, che scrisse per lui e che rappresenta la mia canzone preferita. L’incontro terminò solo quando Faber mi regalò una chitarra e in cambio pretese la mia maglia numero 11“.

Il De André tifoso, che sin da ragazzino era solito appuntare numeri e formazioni del suo Genoa, non era solito frequentare lo stadio. Come ha raccontato Mauro Pagani, musicista tra i suoi più celebri compagni d’arte, Faber evitava lo stadio anche a causa della sua pigrizia (la sua proverbiale pigrizia, quella che lui stesso amava avanzare facendola apparire come una scusa, ma che in fondo si percepisce come una patina protettiva da sospette sollecitazioni). “Fabrizio guardava le partite del Genoa in televisione. A volte lo faceva vestendosi di rossoblu, anche perché il rosso e il blu erano tra i suoi colori preferiti. Quando poteva si vestiva con questi colori, che erano la sua bandiera”

Getty images, Fantagazzetta

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Chissà quanto sarà stato orgoglioso del suo Genoa, De André, quando lo vide battere il Liverpool a Marassi superando il turno di Coppa UEFA eliminando una tra le squadre più prestigiose del mondo. Doveva essere quello il sogno “numero due”, parafrasando affettuosamente un brano dell’album Storia di un impiegato, quando durante un concerto, salutando alcuni esponenti del Genoa presenti a un suo invito, augurò agli storici rivali della Sampdoria di vincere lo scudetto. Un augurio che suonò coi toni un po’ ironici, accompagnato dal sarcasmo divertente del cantante che non mancò di sottolineare che quello della Sampdoria (infatti lo scudetto fu vinto dai doriani) sarebbe stato il decimo della città di Genova, aggiungendosi agli altri nove che invece erano stati conquistati dal Grifone. Uno slancio di sfottò educato e sottile, che i doriani, consolati dal trionfo in campionato, gli avranno sicuramente perdonato con un sorriso benevolo, di sicuro meno benevolo della delusione che i genoani avrebbero poi patito a causa dell’eliminazione nell’edizione 1991\1992 di quella Coppa UEFA, in semifinale, per mano dell’Ajax. Il sogno che si potrebbe ribattezzare “numero uno” era svanito, a braccetto anche con quello dei blucerchiati, tramontato in finale di Coppa dei Campioni col Barcellona in quella stessa annata. Un’annata di sogni svaniti in dirittura del traguardo per una Genova troppe volte abituata a sognare e a soffrire al tempo stesso.

Doveva provare un sentimento tutto suo per la sua squadra del cuore, visto che Fabrizio De André non scrisse mai un inno dedicato al Genoa. “Per fare canzoni bisogna conservare un certo distacco verso quello che si scrive e col Genoa proprio non si può”. Ma anche questo, stavolta la Genova rossoblu, gli sarà stato “perdonato”, ma, soprattutto, ampiamente compreso. A quel Fabrizio autentico e genuino descritto, anche e soprattutto come tifoso, nel libro Faber è solo rossoblù, scritto da Fabrizio Calzia e Laura Monferdini ed edito da Galata, in un libro che non disdegna di affacciarsi sul Faber visto dalla parte della fazione, di quella che per cui ogni genoano si sarà sentito e si sente orgoglioso. Magari in risposta ai simpatici battibecchi tra De André e Vittorio De Scalzi dei New Trolls, doriano e autore di un inno dedicato proprio alla Sampdoria

Pigrizia, silenzio, dolce omissione, grande affetto serbato dietro una posa taciturna. Sembrano questi i primi elementi del tifo per il suo Genoa secondo De André. Come la Teresa di Rimini (altro album di Faber), che “con gli occhi secchi guarda verso il mare”. Un’abiura tenerissima che risiede in fondo all’animo di ogni tifoso che vive la propria fede praticandola con tutti i rigori imposti prima di tutto a se stesso. Una spiritualità che sa di vivere qualcosa a cui non si può provvedere, ma soltanto accettare e amare per quello che è. Come le cose che si amano in vita. Col proposito che arrivino fino in fondo e che non si perdano mai. Che resistano pure a quella che a Genova si chiama macaia, che una volta Gianni Brera pronunciò per farsi beffa degli insuccessi del calcio genovese. “A Genova non si può giocare bene al calcio perché c'è la macaia”. La macaia è una parola ligure che originariamente vuol dire “languore”. Indica una particolare condizione meteorologica di vento di scirocco e umidità. Una condizione ristagnante, che un tempo era molto sgradita ai marinai delle navi a vela, perché non favoriva la navigazione e metteva i carichi a rischio. 

La macaia nell’immaginario collettivo genovese ha poi dato titoli e nomi a libri e a canzoni. In fondo, col passare del tempo, i genovesi la macaia sono riusciti a “metterla in mezzo”, come si fa nel calcio quando si riesce a controllare a lungo la palla facendo girare a vuoto l’avversario. Un’azione lunga che, se riesce bene, irrita e stordisce. Un ozio attivo. Una cosa che forse Fabrizio De André avrebbe gradito.