Lo hanno chiamato turno di Natale

L’ultimo dell’anno fa il bilancio a denti stretti e con la lingua biforcuta. Lo fa Allegri nel dopo partita Atalanta-Juventus. Invece che commentare la gara dal punto di vista tecnico, l’allenatore bianconero fa riferimento alle dichiarazioni di De Laurentiis e Preziosi. E lo fa adducendo all’impossibilità di migliorare il calcio italiano, se questi sono i presupposti polemici, sempre a suo dire. Lamentando un’espulsione, giusta, fastidiosa e dannosa, sempre a suo dire, perché forse indotta dalle proteste degli atalantini (una faccenda procedurale, più che di merito), supportato da uno studio televisivo (quello di Sky) in cui soltanto una voce si leva a sottolineare quanto invece la decisione arbitrale sia giusta e che, faccenda ancora più importante, “di troppo var il calcio non finisce, ma migliora”.

Alla fine della scorsa stagione proprio ne La pressa di Hanta s’era dato ragione ad Allegri, dopo il battibecco con un giornalista della Rai immediatamente successivo alla finale di Coppa Italia vinta dalla Juventus con un netto 4-0 sul Milan. Allora aveva avuto ragione Allegri, davanti a eccessi critici e inutili filosofie. “Il calcio è una cosa semplice”. E, volendola leggere in molte pieghe, l’allenatore della Juventus l’aveva detta giusta. Come giusto era stato l’affronto rapido e conciso a certe polemiche inutili. Stavolta, però, avanzare di sciabola per il signor Allegri non è valso il giusto. Perché non si può predicare morali seccate e indignate se alle domande sui cori razzisti si risponde mettendo davanti ai microfoni le tre scimmiette (non vedo, non sento, non parlo), e perché non si può rivendicare l’offesa alla propria sensibilità soltanto quando cori e striscioni sono contro di te e quando.

Non si può pontificare sul rischio di non avere un calcio migliore quando il club a cui appartieni quello stesso calcio lo ha spedito dritto nelle aule di tribunale, fino alla Cassazione. Non si può pontificare su niente che sia del buon gusto, dell’educazione e di ogni altra retorica isterica quando pochi mesi fa un tuo tesserato ha fatto il gesto dei soldi a un arbitro solo perché questi ha concesso un calcio di rigore (giusto) contro la sua squadra. E quando un altro tuo tesserato viene squalificato per comportamenti poco educati nei confronti di un direttore di gara in quella stessa partita. Non ci si può mettere dal pulpito quando dei ragazzini del settore giovanile del tuo club vengono squalificati per cori razzisti contro i napoletani. Così come non ci si può lamentare delle proteste arbitrali (che avrebbero indotto all’espulsione) quando quello è un metodo che molti dei tuoi calciatori hanno brevettato da tempo, con la certezza di un’impunità che è peggiore delle proteste. Et cetera et cetera. Valga per tutti. Per chi gioca, per chi allena, per chi racconta. 

Una bella mano al calcio si potrebbe dare mettendo da parte un infantilismo che ha tutto il sapore della lesa maestà. Da qualunque parte provenga. L’ha tenuta seduta in panchina a lungo, ieri, a Bergamo, la persona dalla quale l’allenatore toscano potrebbe prendere esempio. Il Cristiano Ronaldo dal timbro internazionale, che dopo i fatti di San Siro ha, a titolo personale, pubblicamente espresso solidarietà a Koulibaly. Quando si dice il segno del rispetto, quel “respect” che non è soltanto lo spot della UEFA, ma qualcosa di più.

Lo sfinimento della sensibilità

"Abbiamo chiesto alla Procura federale tre volte la sospensione della partita, Koulibaly si è innervosito, è normale. Solitamente è educato e professionale. Hanno fatto tre annunci a San Siro, ma non si è fatto niente di più. La soluzione? Interrompere la partita, vorremmo solo sapere quando. La prossima volta lasceremo il campo noi e al limite ci daranno partita persa. Non è una scusa, non riguarda il Napoli, ma tutto il calcio italiano." Carlo Ancelotti dopo Inter-Napoli

Se il suo Napoli in campo ha perso bussola e staffe nel finale, il tecnico del Napoli è invece stato costretto a scovare con lucidità quanto invece andrebbe affrontato più seriamente. Ma non seriamente perché sia giusto o meno sospendere una partita per dei cori razzisti. Quello sospendiamolo, la parola, per un momento. Seriamente perché proclami, intenzioni e promesse non sono di conseguenza. Gli annunci degli speaker sono il rimbrotto al pubblico bambino, l’avvisaglia disarmata alla massa trascinata dentro il cattivo gusto. Una sequenza di azioni, omissioni e impotenze che ridimensionano la dignità dentro un trattamento che sa di commiserazione e menefreghismo. L’offesa è soltanto una figura retorica, un’immagine teorica, una presa di coscienza desolante e desolata. Lo è ancor di più perché il fintume che dice di voler provvedere in realtà si accompagna all’insulto, reggendo il gioco, alimentandolo con la sua mancanza di credibilità.

A San Siro, come in altri stadi, perché purtroppo avviene spesso, è andato in scena un razzismo dentro il razzismo. Una coraglia senza volto addosso alla sensibilità di un uomo, prima di tutto che di un calciatore, intorno a un sentimento anti napoletano che pare una linea nazionale che scatena la sua semantica da stadio ogni domenica, pure durante le partite in cui l’avversario non è quello, come i fallacci a palla lontana, col “nemico giurato” altrove e lontano. E, come sottolineato in altre occasioni proprio da Ancelotti, valga pure per i tifosi del Napoli, invitati dal loro mister a ignorare questo genere di provocazione per concentrarsi soltanto sulla loro squadra. Un genere di emancipazione. Accanto a quello che assegna responsabilità a tutti, i tutti di cui sopra. Pure dei giornalisti e di tutti quelli che hanno il potere di sottolineare le cose, di poterle scegliere. Un’azione che è al tempo stesso antidoto e veleno.

Nulla in cui sperare

E che non ci si aspetti di più da questo paese bravo a promettere, da questo calcio che gli somiglia tanto, che a ogni accadimento triste rinnova sempre le stesse parole, frasi fatte, interventi del non intervento. Un paese in cui il vertice della FIGC, Gravina, proteggendosi dietro i regolamenti (come se questi fossero immodificabili) scavalca il significato delle intenzioni dei massimi dirigenti dell'ordine pubblico (che paradosso clamoroso che sia l'ordine pubblico ad apparire rivoluzionario e indignato), invitando "tutti" ai soliti toni bassi, con quella insopportabile e giurassica tiepidezza tipica di certi burocrati, anche lui con riferimento alle parole dei giorni prima, quando invece i fatti del giorno dopo richiamano le responsabilità di chi sa fare soltanto questo. Passeggiare sullo squallore delle cose. Una passeggiata per la Desolation Row cantata da Bob Dylan. Quella che proprio in italiano, Via della povertà, Fabrizio De André ha tradotto e cantato così. A ciascuno le sue soste tra una miseria e l’altra.