Nessuno si sorprenda se la Serie A sia finita a far da contorno alle imprese di un automatismo. Lassù, in testa alla classifica, si è insediato un automatismo potentissimo. Perché sia così, se per quanti meriti, dentro e fuori dal campo - ognuno si faccia la propria idea dentro polemiche senza vie d’uscita -, è nella preparazione a cui è stato sottoposto un calcio che un tempo rispondeva a stimoli e determinazioni di ben altra caratura. Per cui valeva davvero la pena guardare a una partita che riempiva l’attesa con la parola rivalità. 

Oggi il racconto mediatico si adegua (o adegua) a ritornelli rappresentati da retrospettive, riproposizioni di filmati di gloriosi precedenti, di uno storico che conserva soltanto il sapore della nostalgia. Allora un Fiorentina-Juventus, presentata alla vigilia come una partita difficile per la capolista, come chissà quale viatico stagionale, come un incontro che rievoca chissà quali suggestioni, altro non è che una normalissima tappa di un percorso ampiamente previsto già in agosto, ma non solo di quest’anno, anche degli anni addietro. Che valore potrebbe rappresentare per la squadra prima in classifica, imbattuta e inevitabilmente spedita verso l’ottavo scudetto consecutivo un avversario che non vince una partita dalla fine di settembre? Perché questa Fiorentina, per la quale a Pioli vengono sistematicamente riservati complimenti, elogi e attestati di fiducia (altri allenatori sono stati e sono aspramente criticati per molto meno), da più di due mesi non vince una partita e che nelle ultime nove giornate di campionato ha vinto solo una volta. 

Sono lontani i presupposti che possono rappresentare ragione di speranza per inseguitrici che ogni anno, tranne qualche rarissima eccezione, devono lottare più per affrancarsi dal ruolo di comprimarie che per contendere realmente il primo posto alla solita avversaria. È inutile affaticarsi a voler guardare al campionato italiano come qualcosa in cui scovare accese e vive competizioni. Questa Serie A confida nell’improbabile, riponendo speranze in chi non può far altro che disattenderle. A volte si ha la sensazione che la partita contro la prima in classifica sia qualcosa da considerarsi fuori concorso. Che invece di vedere subentrare stimoli maggiori, s’imponga una desolante rassegnazione. 

È forse questo che si desiderava quando è stata formato un campionato a venti squadre? A quale livello tecnico si assiste? Sarebbe così scandaloso fermarsi a riflettere sul fatto che nel massimo campionato nazionale forse ci sono squadre che non sono all’altezza di questa espressione piuttosto impegnativa? Che in fondo si tratta di una grande vendita al dettaglio di qualcosa che invece viene da un sommario ingrosso? Un torneo in cui tra campionati vinti a punteggi record si contabilizza soltanto la monotonia. Pure i punti raccolti dalle dirette contendenti eccedono in una misura che paradossalmente avvalora ancora di più questo calcio in fondo tedioso, a tratti sospetto, in cui la rassegnazione ha la maschera di parole come “crescita”, “miglioramento”, “progetto” e tutto quanto è proclama di attese che restano tali. Pure alcuni grandi club si sono adagiati su questa solfa. Per bocca dei loro dirigenti, dei loro direttori sportivi, dei loro allenatori. Il raggiungimento non esiste, resta interdetto. La tensione dell’aspirazione è relegata a traguardi marginali, al massimo utili a contentare presidenti e bilanci.

Ormai è lontana anni luce quella Serie A in cui le trasferte per le grandi squadre erano sempre difficili, ovunque si giocasse, in cui lo 0-0 era un risultato frequente, in cui il conteggio dei goal non era affare da pallottoliere. In cui, aspetto che forse andrebbe rivalutato, la vittoria valeva due punti e il pareggio aveva un’altra dignità. Come giusto che fosse. Di fatto, un calcio che alcune squadre per certi aspetti preservava il valore agonistico anche davanti a lunghi periodi di crisi, perché certe ragioni di rivalsa erano realmente fondate. E spesso il terreno di gioco le rivelava.

P.S.

A proposito di dignità

Accade spesso che si montino polemiche sui cori da stadio a sfondo razzista, su certi striscioni e altre manifestazioni che aggrediscono la sensibilità e il rispetto. Al di là di come ognuno voglia cogliere certi episodi, un altro aspetto ha più valore. Quello della reazione. Indignarsi per il cattivo gusto di cori e striscioni è un atteggiamento morale rispettabile, ma se, come è avvenuto spesso, l’indignazione scatta a orologeria soltanto quando ci si sente offesi dalla propria parte, glissando e omettendo in altri frangenti, allora si rischia di diventare dei miserabili al pari di certi anonimi del cattivo gusto.