I gol di Maradona contro l'Inghilterra. Quelli di Pelé nella finale del '58 e del '70. Le mirabilie di Baggio nel '90 e nel '94. La doppietta di Ronaldo - quell'altro, che oggi sembra molti abbiano dimenticato - alla Germania nel 2002. L'inserimento letale di Iniesta nei supplementari della finale 2010. I silenzi di Messi e di Ronaldo - quello 2.0 -, che pur avendo superato i miti del passato sotto ogni punto di vista, per quanto concerne le rispettive esistenze calcistiche nei club, non sono mai riusciti, in un Mondiale, neanche a segnare un qualsiasi gol in una sfida a eliminazione diretta.

Pensateci su un attimo. Chiudete gli occhi e provate a immaginare a quelli che, su youtube, tra qualche anno, saranno le loro compilation di "skills, goals & tricks": zeppe di giocate che definire epiche è riduttivo. Maglie di Real Madrid e Barcellona luccicanti e vivide come non mai, avversari umiliati, numeri fuori da ogni logica. Ma nessun riferimento ai Mondiali. Nessun momento enfatico della loro epopea calcistica, contestualizzato in quella che è per fortuna, ancora oggi, la sintesi sociosportiva perfetta della comunione universale.

Quelli bravi se la giocano una volta sola, in carriera. Chi riesce a giocare ai massimi livelli per 5-6 anni di fila - e sono pochi - se ne concedono due. I campioni totali arrivano a tre. Loro due, per intenderci, sono già arrivati a 4 (2006, 2010, 2014, 2018). Poi ci sono una ristrettissima cerchia di eletti che, riuscendo sostanzialmente ad arrivare alle soglie dei 40 anni, ne hanno giocato addirittura cinque (Carbajal, Matthäus, Buffon e Rafa Márquez). Un record che non è detto che riescano a raggiungere anche loro due. Anche perché è davvero difficile, ad oggi, pensare che dopo non aver inciso (o comunque rispettato le attese) per così tanto tempo, possano riuscirci, rispettivamente a 37 (Cristiano) e 35 anni (Leo).

Fa male da rendicontare, come dato, ma così è, se vi piace. E anche se non vi piace. Il limite sostanziale? Facile dire "gli altri dieci". In passato entrambi hanno dato dimostrazione di come sia possibile far crescere anche il livello di squadra, partendo dalla propria leadership e mettendola a disposizione del gruppo. Oltre, ovviamente, a fare tutto ciò che viene richiesto agli dei del calcio come loro: ovvero, i miracoli. E quelli non si fanno in sinergia, non si producono in consorzio, né se ne spartiscono i meriti. Sono sparite anche le giocate personali, nella rassegna 2018, per i due migliori giocatori in assoluto di quest'epoca, che hanno lasciato inevitabilmente il passo al nuovo che avanza. A Kylian Mbappé, il ragazzino che quando mette il turbo non fa rimpiangere Titì Henry, e, chissà, forse anche a Neymar, che ad oggi in Russia ha mostrato pochissimo, delle sue infinite doti, e che ha finalmente l'occasione di rendere i paragoni con Pelè un po' meno sfrontati.

I grandi vecchi mollano la presa, in definitiva, e lasciano il passo ai nuovi idoli. E a chi, ovviamente, dell'età e della malattia che avanzano non importa nulla: perché il suo, di spirito indomito e combattivo, unito alla passione per ciò che l'ha reso un mito non solo in patria, è il modello ideologico a cui dovrebbero rifarsi tutti i calciofili. Anche la neuropatia di cui soffre ormai da anni s'è fatta da parte, azzannata dalla carica emotiva di un uomo che vuole portare a termine nel migliore dei modi un percorso iniziato 12 anni fa, a seguito della mancata qualificazione alla kermesse tedesca della Celeste. Iniziò dopo quella disfatta la rincorsa di Óscar Washington Tabárez Silva ad un sogno, che lo ha portato già una volta ai quarti e una in semifinale. E non è ancora finita.

E' finita, invece, e con molto anticipo, per le due finaliste dell'edizione 2014. Se ci mettiamo anche che la terza classifica in Brasile (l'Olanda) in Russia neanche c'è andata, e che la squadra campione d'Europa s'è fermata già agli ottavi, possiamo effettivamente constatare quanto siano vacui e sterili la maggior parte dei cicli. A parte quello, sensazionale, della Spagna, tra il 2008 e il 2012, è sempre difficile identificarne altri: eppure questa generazione tedesca sembrava poter ripetersi. Anche perché, nel proprio DNA, i teutonici hanno sempre avuto il culto della continuità e dell'attenzione: aspettarsi una Corea anche per loro era oggettivamente improbabile. E invece così è stato, nell'ultima, tragicomica, giornata dei gironi che ha sancito il peggior risultato di sempre per Low (che, chissà, forse oggi rimpiange di non aver detto sì al Real Madrid) e per la storia della Deutscher Fussball-Bund. Ma mentre i motivi della disfatta dell'Argentina sono evidenti e anche inutili da ribadire, risulta assai più complesso andare a spiegare i motivi dell'eliminazione della Germania per mano di Kim Young-Gwon e Son Heung-Min, non di Grosso e Balotelli. 

Anche in questo caso, ricondurre il tutto alla mera mancanza di un centravanti vero e proprio - Werner non è proprio un uomo d'area - è riduttivo. Così come andare a ricondurre la debacle alla giornata di grazia di un avversario che non ha alcun mezzo tecnico: già contro Svezia e Messico, in verità, i tedeschi avevano mostrato limiti oggettivi, che per una Nazionale campione in carica ed ancora mediamente giovane (27.2 anni, come Svezia, Danimarca e Senegal. La giovanissima Francia 26.1) non sono tollerabili. E allora, considerato che negli uomini questa era sostanzialmente la squadra campione del Mondo, solo una sorta di follia collettiva può avere investito Kroos e compagni. Che, per inciso, prendevano in giro noi (Schweinsteiger e Ballack non li ricorderò solamente io) e oggi si sono ritrovati figli di un Dio altrettanto minore. E vittime del proprio ego. Perché, come ripete Federico Buffa, "Non considerare i coreani è un passatempo molto usato della storia dell'umanità. Con risultati piuttosto modesti".

Prime pagine in Germania (getty)

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Non ho la più pallida idea, a questo punto, di cosa possano riservarci queste ultime due settimane di Russia 2018. Stanti le premesse, più che altro, è possibile solo sperare che accada qualcosa. Possibilmente, di meritorio e affascinante: che, ad esempio, il Brasile del calcio che mi ha sempre emozionato per la propria spensieratezza torni a sorridere. Oppure, meglio ancora, che due piccole ma accattivanti rivelazioni (anch'esse quasi a fine ciclo), come Belgio e Croazia, stando dalle due parti opposte del tabellone arrivino a giocarsi la finale. Che la Colombia o che lo stesso Uruguay riescano a sostituirsi alle due storiche capofila del Sudamerica, o addirittura che il Giappone raggiunga il risultato migliore della sua storia (mai andati oltre gli ottavi). Tutte combinazioni che sono inevitabilmente in contrasto tra loro, ma che renderebbero ancora più accattivante un torneo che, diciamocelo sottovoce, in realtà man mano sta diventando piacevole da seguire con interesse. L'Italia senza Mondiale sta lentamente facendosi piacere il Mondiale senza l'Italia, pur senza mai scrollarsi di dosso quella pesantissima etichetta di "esclusa", a torto o ragione che sia. Una diffusa sensazione di impotenza mista a rabbia che tra un paio di giorni, quando Svezia e Svizzera si sfideranno per accedere ai quarti, tornerà impietosamente di moda.