C’era chi l’avrebbe volentieri “sacrificato” sull’altare del mercato per poter monetizzare il suo saluto, c’è stato chi ne ha dubitato al suo arrivo e chi ha storto il naso pensandolo come un inutilizzabile, un senza luogo a procedere privo di un ruolo preciso, di una funzione adatta a una grande squadra. E invece, allo scoccare della sua sesta stagione in maglia partenopea e al terzo allenatore, Dries Mertens nella classifica marcatori azzurri di tutti i tempi ha scavalcato due monumenti: Altafini e Careca.

A dispetto di critiche fatue e ripetitive, questo Napoli ha trovato le sue figure di continuità in quegli uomini spesso discussi, in eccesso, ma sempre fermi dentro se stessi, saldi a predicarsi con un carisma extra ordinem, anomalo in un calcio in cui le televisioni praticano un’evangelizzazione dell’elogio misurato secondo il capitale. Hamisk prima, col suo record di segnature assoluto, Mertens poi, con i suoi quasi cento goal adesso a ridosso di chi invece le tre cifre le ha raggiunte e superate, dentro una maglia di una città e un ambiente che non sono semplici a viversi, in cui pochi hanno voluto e saputo restare a lungo.

Dei 98 goal con cui Mertens ha superato Altafini e Careca, molti sono composizioni, improvvisi, intermezzi dentro una grande suite dove sarebbe davvero difficile scegliere quelli più belli. Mertens è un calciatore in credito con ogni misurazione di quell’elogio che si risparmia con superficiale e malfidata parsimonia, prima di tutto quello corrotto dalla diffidenza dentro “casa”. Buona parte dei media napoletani non ne sono esenti. E invece Dries Mertens ha saputo scardinare dubbi e diffidenze col guardaroba di compiti e ruoli che gli allenatori di questi anni gli hanno cucito addosso. Ricoprendo ogni posizione d’attacco, fino alla consacrazione da punta centrale, Mertens ha rassomigliato a uno Schiaccianoci del terreno di gioco. Sotto mentite spoglie, sotto incantesimo, ha rivelato le gesta della sua impresa lenta e perseverante. La rivelazione alla sua futura regina è avvenuta affrontando senza mugugni le alternanze tattiche di Rafa Benitez, il carico di presenze e di responsabilità avvenuto con Maurzio Sarri e la fiducia progressiva di Carlo Ancelotti. Tutto sempre oltre la fatica, l’utilizzo a volte spasmodico, senza risparmio, traversale dentro un percorso segnato dai tentativi di una squadra di arrivare dove qualcuno appena superato dai 98 goal del belga era invece arrivato. Per esempio, Careca. 

Mertens a quei tentativi non riusciti è “sopravvissuto”, durando in una casacca in fondo figliastra, di una presenza scomoda e non sempre bene accetta nella grande aristocrazia del calcio italiano. Mertens invece ha proseguito, come qualcun altro prima di lui. Qualcuno potrebbe malignare alludendo a una scelta dettata da ragioni anagrafiche, a danno di una valutazione di mercato meno performante a far sì che l’attaccante potesse sgusciare via a suon di milioni. Eppure, probabilmente Mertens e le circostanze hanno resistito anche quando il momento sarebbe stato più propizio, grazie pure a chi ha creduto e ha voluto crederci scovando in lui lo spirito gioioso e inafferrabile del suo calcio, proprio come uno Schiaccianoci a cui il destino ha riservato il compito di schiacciare la noce più dura di tutte. Rompere la Cratatuc sarebbe il più imprevisto e impronosticabile suggello. 

Tuttavia, il ballo con cui dopo il primo goal con l’Empoli Mertens ha citato la danza del grande Careca, tipica della sua storica esultanza, ha rievocato per un momento un tempo in cui i goal riuscivano anche a rompere la Cratatuc. Chissà se quella corsa nel finale, dopo il goal del definitivo superamento di Altafini e Careca, non sia stata accompagnata dal motto di un nuovo inizio. Quelli come Dries Mertens non finiscono.