L’Araucania è una regione del sud del Cile, patria dei Mapuche, gli ultimi indigeni ad arrendersi prima ai conquistadores, poi ai cileni stessi. Lì, a quasi 700 chilometri da Santiago, c’è una città di trecentomila abitanti che si chiama Temuco. E lì, negli anni 80, un ragazzino cominciò a tirare calci a un pallone. Prima nel Santos, la squadra del suo quartiere, poi nel Deportes Temuco. Sarebbe diventato il più grande cannoniere della storia del Cile, ma non lo sapeva ancora. Sarebbe stato il primo cileno a fare la differenza in Argentina, ma non lo sapeva ancora. Avrebbe avuto successo nel campionato più bello del mondo, ma non lo sapeva ancora. Era Marcelo Salas, e questo lo sapeva: non sapeva, però, che sarebbe diventato Marcelo Salas, el Matador.

 

1991: a Temuco arriva per un piccolo torneo l’Universidad de Chile, che assieme a Colo-Colo e Universidad Catolica è parte della sacra triade del calcio cileno. Organizzano dei provini, e il giovane Salas, non ancora Matador, decide di partecipare. I genitori non sono molto convinti: ci sono migliaia di aspiranti, credono possa essere una delusione. Lui non ci pensa, e si presenta sul campo: è un martedì: lo prendono, e il sabato successivo è già in campo per la sua prima partita con le giovanili della U. Segna una doppietta. La prima ufficiale con i grandi arriva il 10 aprile del 1993: in quel periodo una band argentina, Los Fabulosus Cadillacs, pubblica una canzone che avrà successo anche in Cile: sarà colonna sonora delle prodezze del primo Salas. E accompagnerà per sempre la sua carriera in campo.

 


 

Dopo tre anni in patria, al ventiduenne attaccante si interessa il Boca Juniors. Vorrebbero portarlo alla Bombonera, ma senza fare follie: Salas resiste al richiamo quando capisce che lo vogliono solo in prestito, perché, come ricorda Carlos Bilardo, “nessun giocatore cileno ha mai trionfato in Argentina”, e non si vuole correre il rischio. Il Matador, allora, rifiuta e aspetta: la chiamata arriva, e ad alzare la cornetta sono gli acerrimi rivali del Boca: Salas firma un triennale con il River Plate, che lo compra per tre milioni e mezzo di dollari. Dopo un periodo iniziale fra adattamento e diffidenza, gli inchini ai tifosi dei Millonarios diventano appuntamento fisso. E arriva pure una mezza vendetta, il 29 settembre 1996: si gioca il Superclasico, Salas segna il gol del momentaneo 1-1: finisce 3-2 per il Boca, ma l’Apertura sarà del River. È il primo trofeo argentino del Matador, che in Argentina vince un’altra Apertura, poi una volta la Clausura e una Supercoppa Sudamericana. Nel 1997 è il giocatore sudamericano dell’anno: prima di lui, l’unico cileno a riuscirci era stato il leggendario Don Elias Figueroa.

 

Successo dopo successo, gol dopo gol, va da sé che si cominci a parlare di Salas anche oltreoceano. Per il Matador è il momento del salto nel calcio europeo: lo compra la Lazio: contratti firmati a gennaio 1998, inizio dell’avventura italiana fissato a dopo il mondiale. L’acquisto invernale è una mossa intelligente, perché a Francia ’98 Salas contribuisce a portare il Cile (che mancava ai mondiali dal 1982) fino agli ottavi, poi persi contro il Brasile vicecampione. Nelle quattro partite francesi Salas segna quattro gol, parte dei 37 che ancora oggi ne fanno il massimo marcatore di sempre della Roja.


saza
Salas e Zamorano a Francia '98 (getty images)
 

 

Nella Lazio il Matador diventa uno degli idoli della Nord: con una squadra straordinaria ed Eriksson in panchina vincerà lo scudetto nel 2000. Per i biancocelesti, però, è un periodo difficile: i debiti costringono Cragnotti a mettere sul mercato i pezzi migliori della rosa. Salas è ogni anno al centro di trattative. Prima viene proposto all’Inter, che invece deciderà di spendere 90 miliardi per Vieri. Poi è il turno della Juventus: dopo aver capito che Moratti non ha intenzione di cedere lo stesso Vieri, Moggi si convince e Salas diventa bianconero: alla Lazio 25 miliardi più Darko Kovacevic. Una mossa di sicurezza, verrebbe da pensare: l’altro nome sul taccuino dell’allora dg juventino era un ragazzino portoghese di 17 anni su cui si decise di non puntare perché serviva un giocatore già pronto. Quel ragazzino era Cristiano Ronaldo.

 

A Torino il Matador passa i momenti più brutti della sua carriera: poco feeling con Lippi e un grave infortunio al crociato ne limitano i minuti in campo e i gol, l’esplosione di Marco Di Vaio fa il resto. Due anni e due scudetti da comprimario dopo, torna in Argentina. La seconda esperienza al River, però, non avrà niente da vedere con la prima, soprattutto per gli infortuni. Passano altri due anni e Salas si ritrova senza contratto: pensa di ritirarsi, poi l’amico Arthur Salah, ex ct cileno, gli propone di tornare a casa per allenarsi con lui: di aspettare. Salah diventerà tecnico dell’Universidad, e Salas potrà chiudere la carriera da professionista dove l’aveva cominciata.

 

Al ritorno in patria, però, Marcelo si iscrive anche all’università: studia Sport Management e Marketing, pone le basi per il suo futuro dopo il pallone. Quando decide di appendere definitivamente gli scarpini al chiodo, usa un terreno che aveva comprato anni prima per avviare un’azienda agricola: produce mirtilli, rifornisce Stati Uniti ed Europa. Gli affari vanno bene, e all’attività principale affianca, ancora, il calcio: compra il Deportes Temuco, la squadra dei primi passi: toglie i ragazzi dalla strada e li mette in squadra, li fa studiare, li fa crescere. Con un pallone tra i piedi e una banderilla fra le mani.

 

Antonio Cristiano