Estate 1965: Achille Lauro decide di vestire il Napoli da protagonista, perché lui è in politica e il pallone è un veicolo di consensi che batte qualsiasi voto di scambio. Nei cinque anni precedenti la società non se l’è passata molto bene: due partecipazioni alla Serie A con due retrocessioni e tre anni di B. E nel primo anno di cadetteria della sua storia, la prima Coppa Italia. Ma in città si vuole sognare, si vuole lottare per le posizioni importanti della classifica, e per quella parola con la S che ancora oggi si fatica a nominare. Allora Lauro, ricchissimo armatore e proprietario dell’omonima flotta, decide di mettere mano al portafogli e fa due colpi di mercato colossali: 90 milioni per comprare Sivori dalla Juventus, 280 per strappare Altafini al Milan.

 

Lo chiamano Mazzola, Altafini, perché assomiglia a Valentino, il capitano del grande Torino. Quell’abitudine tutta brasiliana di dare a tutti soprannomi che poi diventano nomi non toccherà José, che Mazzola lo terrà come nickname e che sarà sempre Altafini. In coppia con Sivori, José detta legge e il Napoli diventa stellare, anche perché cominciano a crescere giovani interessanti come Antonio Juliano. Nel 1965/1966 è terzo posto, cinque punti dietro l’Inter campione d’Italia: per Altafini, 14 goal. Diventeranno 16 al secondo tentativo, l’anno del quarto posto. E 13, l’ultima doppia cifra napoletana, nell’anno del secondo posto, dietro al Milan e davanti alla Juventus. Nell’anno della rovesciata contro il Torino.

 

 

Il ‘67/’68 è anche l’ultimo anno di Pesaola sulla panchina azzurra: arriva Chiappella, e arriva pure la crisi dei Lauro. La società è sull’orlo del fallimento, e passa in mano a Corrado Ferlaino, giovane ingegnere nemmeno quarantenne. Le prime stagioni sono altalenanti, ma fra annate di metà classifica ci si piazza anche un terzo posto, nel ‘70/‘71. Nel 1972 Ferlaino decide di dire addio a due punti fermi della squadra, cedendoli alla rivale Juventus: saluti a Zoff e all’ormai trentaquattrenne Altafini, che in bianconero giocherà part-time ma sarà sempre e comunque decisivo, anche più dei giovani compagni. E sarà decisivo anche alla resa dei conti con il Napoli. Anche il 6 aprile 1975.

 

La Juventus è prima, ma il Napoli è lì, a due punti. Nella balorda partita d’andata, al San Paolo, finì 6-2 per la Juve. Una sconfitta che avrebbe dovuto ridimensionare gli azzurri, e che invece fu da sprone per un cammino fantastico che li porto fino a quel giorno, fino al 6 aprile 1975, al secondo posto, a giocarsi lo scudetto in casa della Signora. Altafini comincia in panchina, Zoff è titolare, come è sempre stato per tutta la sua permanenza in bianconero. Passa in vantaggio la Juventus, nel primo tempo: Damiani per Causio, botta di destro all’incrocio. Il Napoli stringe i denti e si lancia all’attacco, ma Zoff è insuperabile. O, almeno, quasi insuperabile, perché nel secondo tempo tocca a Juliano battere il suo ex compagno: 1-1. A un quarto d’ora dalla fine entra Altafini, un copione già visto. Come già visto è quello che successe dopo: azione da calcio d’angolo, Carmignani esce male, palla a Cuccureddu, tiro secco sul palo, rimpallo sui piedi di Altafini, gol: è il 43’ dei secondo tempo. Il Napoli non ha più la forza di reagire, la Juventus diventa di fatto campione d’Italia. Altafini, dopo la partita, dirà: “I tifosi del Napoli mi hanno fischiato, e io li ho puniti”. 

 

Non c'erano riusciti in patria, a dare ad Altafini un soprannome che rimanesse. Non c'erano riusciti in quel Brasile dove non esistono cognomi, e non c'erano riusciti nemmeno interpellando uno dei più grandi campioni della storia del calcio, perché Altafini, mica era Mazzola: era Altafini. Ci riuscirono a Napoli, il giorno dopo quella sconfitta con la Juventus, il 7 aprile 1975. Su un muro, fuori al San Paolo, un tifoso ferito parlò per tutta la città, e Napoli battezzò Altafini "core 'ngrato".

 

Antonio Cristiano