Cominciamo con una doverosa premessa. Non sono mai stato fatto per il calcio. Quantomeno giocato, intendo. Piede mellifluo al limite dell'inutile; dedizione alla causa pari a quella d'un indolente Drugo in astinenza da white russian; uso ed abuso di sigarette e pastasciutte. A raccontarlo, esaminarlo, guardarlo in TV o allo stadio, meglio ancora se con accanto un PC acceso e qualche shottino di amaro del capo, invece, vado già un po' meglio.

Come il 99% degli esseri umani di sesso maschile, però, l'ho praticato pure io. E da bambino, più per gioco che per passione, anch'io ho avuto i miei bei momenti di gloria.

Anzi, il mio bel momento di gloria.

Ad occhio e croce avrò avuto 9, al più 10 anni. Ero alto giusto mezzo Giovinco, avevo i capelli biondi e rigorosamente pettinati da bambino per bene, e giocavo - anzi, mi schieravano, vai a capire perché - rigorosamente davanti alla difesa. Perlopiù ad aspettare che la partita finisse, e senza far danni. 

Si giocava nel campetto di fianco alle scuole medie, con gli zaini a fare da pali, la proiezione dei nostri ego a fare da traverse, ed il super santos (il miglior pallone del mondo) da 2500 lire da ricomprare ogni qual volta che una delle finestre dei vicini veniva gratuitamente deflagrata

 

Lancio lungo, con le mani, del portiere. Uno di quelli che, quasi sempre quando giocano i bambini, finisce per fare 7/8 rimbalzi a terra prima d'essere stoppato dall'uomo invisibile che ringrazia la forza di gravità ed il decadimento dell'energia potenziale. 

Non quella volta, nessun rimbalzo. Coordinato e solenne come la migliore Nadia Comaneci , inebriato dal coraggio di Pasquale Luiso ed invaso dal fantasma di Gigi Riva mi prodigo in una solenne rovesciata. Rigorosamente ad fermo e senza staccare ambo i piedi da terra, però: perché i bambini per bene non si sporcano certo con il terriccio. Il pallone prima si impenna, poi copre la traiettoria dell'intera metà campo avversaria, infine sovrasta il portiere - eufemismo che sottintende il meno aulico termine 'sagoma' - avversario e si infila sotto l'inesistente incrocio. 

Sedata l'inevitabile rissa dovuta all'ineffabile altezza della traversa, che per alcuni distava 30 centimetri da terra, per altri rasentava quella d'una porta rugbystica e per altri ancora dipendeva solo ed esclusivamente dall'altezza del portiere per non creare disparità, festeggio con nonchalance, e di fatto regalo al calcio il mio addio. Nell'attimo del punto più alto della mia parabola sportiva.

Durante la parentesi universitaria, in verità, ci fu un altrettanto succoso e grottesco ritorno al calcio giocato, che però mi risparmio per un altro editoriale.

 

Un lungo e tediante preambolo, apparentemente inutile, in definitiva, per introdurre il più caustico degli argomenti. Anzi, la più caustica delle categorizzazioni: quella tra gol utili e inutili. Anzi, meglio: tra gol più e meno importanti. Anche perché i gol inutili non esistono. Prendete quello di quand'ero poco meno d'un Giovinco: è stato comunque utile al fine di rendere leggiadra e narrabile la mia carriera calcistica, ed inoltre si presta a tutta una folta aneddotica free-style che amo sciorinare qua e là, soprattutto quando l'editoriale latita.

Tre gol di Tevez - per dirne una che le vale tutte - segnati contro la non certo ferrea linea composta da Antei, Bianco e Marzorati, possono non valere un gol di Higuain contro l'Inter. 

Con la tripletta, certo, l'Apache consegna a sé stesso la veste di uomo gol unico ed imprescindibile della Juventus, e alla Signora l'ennesima conferma del fatto che lo scudetto, ancora una volta, sarà probabilmente una lotta onanistica ed autoriferita. Ma Higuain, con il bel volante che sblocca il match di giornata, di fatto rimanda a casa con tanti saluti Walter Mazzarri e regala a sé stesso ed al suo popolo la meritata rivalsa dopo una settimana di passione amara, penetrata dalle scorie della più balorda fuoriuscita dalla Champions.

Già, la Champions. Nella maggiore competizione europea i gol dell'Apache si possono disegnare con il compasso: e non è un bene. Certo, mi si dirà: ma il valore del nuovo numero 10 bianconero non è discutibile. Vero, quanto è vero anche, però, che non si può prescindere dal proprio uomo chiave se si vuole diventare grandi non solo nel Belpaese, ma anche altrove. E se a Tevez proprio si vuole trovare un tallone d'Achille, si deve addurre questo: anche perché la statistica, se ampliata all'intera stagione, dice anche altro. 

Degli 11 gol torinesi dell'argentino, sinora, nessuno è stato realizzato ad una grande del nostro calcio o decisivo in un match di spessore: uno, l'ultimo, inutile, alla Lazio in SuperCoppa; uno a testa a Samp, alla stessa Lazio (anche qui l'ultimo del match), Verona, Fiorentina (anche questo, inutile), Catania, Genoa, Livorno e, infine, tre al Sassuolo.

 

La Juve diventerà grande anche in Europa quando il suo uomo migliore sarà altrettanto grande. Per il momento, però, basta e avanza per vincere in campionato contro le piccole, a differenza delle altre. Che, per inciso, contro il Sassuolo non hanno vinto: anche perché, forse, non hanno uno come Tevez. Che magari segna gol meno importanti di altri, ma comunque diversamente utili.

Il gol di Higuain contro l'Arsenal, per quanto poco ci si possa credere, seppur condito dalle lacrime è stato più importante di tutti gli altri - 4 in 5 partite, score comunque notevolissimo - messi insieme. 

Ha regalato ai tifosi 20 minuti di speranza d'inestimabile valore, e soprattutto la reale consapevolezza d'una dimensione finalmente raggiunta, quella internazionale, che neanche lo stesso Mazzarri (pur essendo arrivato più in fondo) era riuscito a conferire ai suoi. Ed all'addio di Mazzarri stesso, uscito basito dal furoreggiante San Paolo e dalla (pre)potenza offensiva della sua ex squadra, sono dovute tante delle attuali, piccole, fortune degli azzurri. La sua idea di calcio, sparagnigno seppur compatto, in quanto antitesi di quello furibondo e spregiudicato di Benitez non è adatto al nuovo corso azzurro, e proprio per questo motivo si fa fatica ad immaginarlo a lungo sulla panchina nerazzurra, oggi investita a sua volta da un'era, quella Thohir, proiettata verso ambiziosi traguardi e più moderne prospettive. 

 

Le stesse, per intenderci, che ha la Fiorentina. La squadra che, seppur con minor mezzi, gioca da 18 mesi il calcio più bello d'Italia è anche quella che avrei voluto vedere in Europa. E non solo perché non è detto che non lo meritasse, ma anche perché il calcio che l'Europa adesso insegna a noi - e non viceversa, come fu - è molto più simile a quello di Napoli, Roma e Fiorentina che a Inter, Milan e Juventus. 

Il gol di Borja Valero - una delle tante, vellutate perle dell'iberico in maglia viola - non sarà importante (questa non la spiego, mi sembra evidente vista l'opposizione ridicola offerta dal Bologna a Firenze) quanto quelli di Eder, De Luca e Farnerud, ma nella settimana in cui si torna a parlare d'oriundi d'Italia produce un'altra riflessione. L'ex Villareal ha giocato una volta sola, ormai 2 anni e mezzo fa, con la Spagna. 

Posto che, giustamente, il ragazzo preferirà continuare ad ambire alla Selección, perché si dovrebbe - in via puramente teorica - riflettere solo sulla legittimità d'un Jonathan, piuttosto che d'un Motta o un Ledesma o un Amauri in azzurro, e perché la propria Nazionale li ha di fatto ripudiati ad vitam?

E' giusto non poter dare - discorso che vale tanto per l'Italia quanto per qualsiasi altra Nazionale - la chance di giocare almeno un Mondiale a quella che, ad oggi, è una delle mezzali migliori e più complete d'Europa, solo perché ha la 'sfortuna' di esser nato nella generazione d'oro del 'suo' calcio, e non poter neanche farlo esprimere con un altra casacca, perché solo una volta baciato dalla convocazione?

Dilemmi inestricabili, che si sommano a quelli, sempre relativi alla Champions, che tiravo giù non più di tre giorni fa, a margine del crollo delle italiane d'Europa. 

 

Domani, invece, capiremo se gli uomini chiave di Roma e Milan, Totti e Balotelli, segneranno gol altrettanto importanti. Quello del pupone lo sarebbe eccome, perché servirebbe a ridare linfa alla comunque ardua corsa scudetto dei giallorossi. Almeno quanto quello di SuperMario, che potrebbe tirare defintiivamente fuori dalla crisi sé stesso ed il Milan, alla caccia d'una risalita che sinceramente, allo stato attuale, pare ardua almeno quanto la corsa scudetto dei capitolini. 

Quel che è certo è che nessun gol, né di Borja, né di Tevez, né di Higuain, Balotelli o Totti sarà mai importante quanto quella miracolosa rovesciata. C'è gente che ancora adesso, a 20 anni di distanza, la ricorda come inestimabile. 

'La gente' di cui sopra sarebbe il sottoscritto, e posso dare per certo, assodato e vivido il mio ricordo. 

Chissà se Carlitos ricorderà, nel 2033 o giù di lì, quella fantastica tripletta al Sassuolo.

 

Alfredo De Vuono

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